Dolore buio, pasticche colorate

«Farmaco» di Almudena Sanchez

8 minuti di lettura

Almudena Sanchez prende per mano i lettori e li accompagna nella discesa agli inferi della depressione, senza veli o censure.

Farmaco

«Ci troviamo, d’un tratto, fragili e in fiamme». Così, con una semplice frase, Almudena Sanchez in Farmaco (Polidoro) racconta la sua calata nella depressione. Una calata lenta, quasi impercettibile, che prosciuga energie e vitalità, rendendo il corpo solo un involucro, un contenitore di sofferenza.  Così Almudena – perché la storia è autobiografica -, si ritrova, giovane, a convivere con un male di cui le persone fanno fatica a dire il nome. Si ritrova in farmacia, una ricetta in mano e spesso la reticenza dei farmacisti che, in fondo, ad una ragazza della sua età non vorrebbero prescrivere  pasticche del genere.

In Farmaco è la malattia a parlare, con la sua voce delirante e al tempo stesso flebile, frammentata e al tempo stesso incessante. Ed è proprio questa voce a spingere il lettore a sfogliare le pagine una dopo l’altra, nonostante a volte le parole facciano male e brucino. Ma è l’unico modo, per chi non ci è passato, di capire cosa succeda effettivamente nella mente di una persona che soffre di depressione. Che la letteratura sia un mezzo per far vivere mille vite ed esperienze non è una novità, ma stupisce vedere come l’autrice non esiti a prenderci per mano e a portarci in un posto buio, dove la luce entra solo di tanto in tanto ed è così accecante da fare malissimo. Farmaco è la storia di una donna, di una malattia, di pastiglie arancioni che mettono in standby e pasticche rosa che mandano nella stratosfera. 

La depressione raccontata da Sanchez è come un sisma che fa crollare edifici e città. Una scossa da dentro, dalla pancia del mondo, e tutto si frantuma come un biscotto di pasta frolla. Eppure, di cicatrici non ne restano. Il corpo rimane integro, tanto che dal fuori la sofferenza della persona rimane impercettibile, mascherata dietro un sorriso di cartapesta. Qualcosa, però, dentro cambia per sempre.

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Nei secoli dei secoli

Da Leopardi all’esplosione di malessere post pandemico nei giovani, la depressione è qualcosa che non smette di prosciugare i corpi e affaticare le menti. Per chi non l’ha vissuta, è difficile capirla o anche solo provarci. Ed è difficile anche avvicinarsi all’orlo di quel baratro senza forma e colore. «Mi hanno insegnato, da sempre, che quella è gente che dovrebbe “svegliarsi”, “darsi una mossa”, “smetterla di fare storie”» scrive Sanchez, rendendo chiaro quale sia l’atteggiamento della società non solo verso la depressione ma verso la salute mentale nel suo complesso.

Una questione di volontà, di forti e deboli, vinti e vincitori, quando la realtà è ben diversa e nessuno, di certo non Almudena Sanchez, che all’improvviso si è ritrovata fragile e in fiamme. E la prima cosa che succede, quando si scivola nel baratro, è la perdita di ciò che teneva ancorati al mondo, alla vita. Mentre la terra si sgretola e le dita perdono la loro presa, anche le passioni si affievoliscono e finiscono, dimenticate, nella tasca di un giubbino. «Molto spesso soffrivo per la nostalgia di una scrittura che prima sgorgava da me con semplicità» scrive, e non si può non sentire quel bruciore di chi si sente cambiata, svuotata, di chi si guarda allo specchio senza riconoscersi. Perché la questione, alla fine, è questa: non riconoscersi. Non essere più se stesse. O, forse, essere se stesse ma in un modo nuovo, che prima non si conosceva. Un modo più fragile. 

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Viaggio al fondo del dolore

Almudena Sanchez realizza una vera e propria dissezione della sofferenza provocata dalla depressione: in ogni capitolo si scende più giù, si cercano le cause, riaffiorano i ricordi. Un’infanzia «subacquea, putrefatta, in un’automobile che fa su e giù, verso una punta dell’isola, attraverso i campi della Castiglia, e che ha sete e sviene quando sente odore di benzina». Ma la memoria è alterata, anche a causa dei farmaci, e le immagini si confondono come in un quadro guardato attraverso la lente delle lacrime. 

Le punte più profonde del dolore, o forse no, non del dolore ma dell’anestesia che contraddistingue lo stato depressivo, portando la persona a sentirsi galleggiare in un mondo che non attrae più, si raggiungono nel momento in cui Almudena pensa al suicidio.

«Vorrei piazzarmi davanti a una di quelle macchine. Che mi vengano addosso. Senza frenare. C’è un che di cinematografico nell’essere scagliata via e rotolare fino a una spianata» scrive, per poi continuare con il flusso dei suoi pensieri.

Appigli di salvataggio

Qualsiasi cosa si viva, qualsiasi sia il problema, il disturbo o la malattia, servono appigli a cui aggrapparsi. «Non puoi combattere una guerra da solo» cantava Mr Rain a Sanremo, conquistando il cuore di tutti con il suo inno alla fragilità. Una mano da stringere serve, sempre. E anche Almudena in Farmaco (acquista) lo conferma. La mano che stringe è piccola, ma abbastanza da farla riemergere. Una bambina, Carla, a cui faceva da baby sitter di tanto in tanto, diventa uno spiraglio di luce. «Non smette di sorprendermi. Continua a illuminare la mia vita: apre gli occhi, ride con le ciglia bagnate, mi spruzza dell’acqua calda e fredda insieme […]. Per la prima volta percepisco l’infanzia come un piacere e non come un castigo». 

Ad aiutarla a guarire c’è il Dottor Magnus, lo psichiatra a cui ha chiesto aiuto. C’è la zia Antonina che girava tutta Madrid per portarle la frutta che sperava avrebbe mangiato. Ci sono i libri con il loro potere salvifico. «Una pagina dietro l’altra mi accorgevo che morire era impossibile, nonostante avessi mangiato frammenti di carta da regalo: stavo leggendo e non potevo smettere di trasformarmi in altri personaggi». Il ritorno alla vita è un atto collettivo.

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Maria Ducoli

22 anni, studio linguistica a Venezia, leggo, scrivo e cerco di sopravvivere alla giornata.

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