«Tutta la notte ali cupe/sbattono nel mio cuore./Ognuna un uccello ambizione». Questi versi sono tratti dalla poesia Uccello ambizione (The Ambition Bird) della poetessa americana Anne Sexton (1928-1974). L’uccello appare come simbolo dell’anelito di Sexton alla libertà di esprimersi e al desiderio di essere compresa dagli altri, cosa che non le fu permessa per via di un ambiente familiare opprimente e dei suoi problemi di salute mentale.
«Uccelli ambizione» in cerca di libertà e di empatia lo erano anche i “paz”, i pazienti del “repartino” dell’Spdc dell’Ospedale Mauriziano di Torino, che Francesca Valente ritrae in Altro nulla da segnalare, vincitore all’unanimità della XXXIV Edizione del Premio Italo Calvino e pubblicato nella nuova collana «Unici» di Einaudi.
La trama di «Altro nulla da segnalare»
Nei primi anni Ottanta, è stata approvata la legge 180, voluta dallo psichiatra veneziano Franco Basaglia. Questa legge consisteva: nell’abolizione degli ospedali psichiatrici e dei manicomi; nella regolamentazione del trattamento sanitario obbligatorio; nell’istituzione di reparti aperti dove chi soffriva di malattie mentali veniva trattato al pari degli altri.
Questo è il contesto in cui Francesca Valente, grazie anche all’incontro con lo psichiatra Luciano Sorrentino, ambienta le sue Storie di uccelli, sottotitolo del suo libro. Traendo ispirazione dai “rapportini” che Sorrentino le ha consegnato, l’autrice narra l’umanità del “repartino” dell’Ospedale Mauriziano di Torino, le cui storie sono filtrate attraverso le relazioni scritte degli infermieri e dei medici.
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Non solo i “paz”, tra cui Petri e il suo desiderio di «una vita semplice», Debernardi e il suo «potere immaginativo» oppure l’attore Carlo Colnaghi, ma anche i medici come Sorrentino e gli infermieri come Tornior. Tutti accomunati dalla voglia di essere liberi, di realizzare le proprie utopie, ma allo stesso tempo delusi da una realtà in cui non si riconoscono più:
Sono nate e cresciute, queste storie, mescolando realtà e immaginazione. Perché le tante persone passate per i repartini, e nelle comunità che nacquero dopo la riforma, hanno lasciato minuscoli frammenti: il resto in un cono d’ombra. E perché ognuna di queste storie è una possibile versione di qualcosa che è accaduto realmente, una fotografia ricomposta di una vicenda individuale e collettiva.
«Altro nulla da segnalare»: il cono d’ombra dei “paz”
In un’intervista a cura di Miriam Massone per «La Stampa», l’autrice ha dichiarato a proposito del suo libro, il cui titolo è anche la formula con cui si concludevano i “rapportini”: «le storie che scrivevo dopo ogni incontro [con Luciano Sorrentino], non erano un memoir né fiction e non potevano diventare un saggio, una raccolta di aneddoti o narrativa tout court».
Le storie contenute nel libro di Valente sono di fatti racconti che hanno una voce autonoma. Dal punto di vista narratologico, solo uno, quello dedicato alla paziente Amalia, è in prima persona, mentre gli altri sono narrati in terza persona. Esse dialogano fra loro attraverso forme narrative molto particolari, come afferma Valente nella già menzionata intervista:
Ho affidato alle storie la responsabilità di costruirsi da sole, mettendomi da parte. E ho incontrato persone alle quali questa forma narrativa un po’ bizzarra non ha destabilizzato ma interessato. È un’opera letteraria che nasce da frammenti di memoria, scritti e orali, che intreccia e combina per costruire storie plausibili: è “una realtà inventata”, riformulata e ricreata per meglio suggerire l’umanità di chi visse l’epoca straordinaria della rivoluzione psichiatrica. Per citare Björn Larsson che cita Baudelaire che commenta Balzac: compito della letteratura non è copiare la realtà ma inventarla.
Valente fa dialogare, quindi, frammenti diversi della memoria per creare delle storie ex novo. All’inizio di ogni racconto vi è in esergo un brano tratto dai “rapportini” – riportati con un font diverso rispetto ai racconti – che dialoga con i racconti di Valente. Quest’ultimi, partendo dai primi, provano a dare una propria versione dei fatti; allo stesso tempo provano a ridare ai “paz” un’umanità che lo sguardo degli infermieri e dei medici non restituisce in maniera autentica.
Uccelli in cerca di libertà
Ritornando alla già citata intervista per «La Stampa», Valente afferma che il sottotitolo Storie di uccelli rimanda all’idea che gli uccelli «ci ricordano la libertà e la leggiadria, ma pure le gabbie dentro le quali sono rinchiuse le specie più rare». Nel libro, dunque, vi è la contrapposizione fra la realtà dei “rapportini”, che ingabbiano i “paz” nelle osservazioni degli infermieri e dei medici, e la loro umanità e desiderio di libertà.
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Se le relazioni del “repartino” ci mostrano i pazienti nelle loro crisi e nella loro routine soffocante fra l’assunzione delle medicine e i permessi a uscire fuori dalla struttura, i racconti ci restituiscono un’immagine sincera dei “paz”, come dimostra la storia di Salvatore. «Nel suo sguardo mutabile», scrive Valente in riferimento a quest’ultimo, «passarono i fatti inconoscibili di una vita, una mescolanza di orrori e speranze, bellezza e angoscia, illusioni, interruzioni, che si traducevano in quella stanchezza visibile».
Lo sguardo di Salvatore mentre si confronta con Sorrentino è lo sguardo rappresentativo dell’umanità dei “paz”; un’umanità di persone incomprese, che si sono ritrovate nei manicomi perché, come Libera, si trovavano in «un’epoca a cui non credevano d’appartenere e da cui sarebbero sempre stati estromessi».
L’umanità del “repartino”
Tutti i pazienti dell’Spdc vogliono rivivere sensazioni e situazioni che non rispecchiano la realtà in cui si ritrovano; allo stesso tempo i loro traumi li portano a chiudersi nei confronti del mondo esterno, contribuendo all’incomprensione da parte di chi vive fuori dai manicomi. Debernardi, ad esempio, va allo zoo ed entra in contatto con una tigre per dimostrare che tutto ciò che vive è vero e non è frutto della sua immaginazione. Salvatore, invece, fingendo di guidare la sua moto vuole rivivere il suo vecchio lavoro in fabbrica. Emblematici sono anche i racconti di Mirna e Alma: la prima vuole rimuovere il ricordo del padre Giuseppe; l’altra vive ogni contatto umano con paura, perché le torna alla memoria la morte del marito Ettore.
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Il discorso dei “paz”, però, vale anche per medici e infermieri, in particolare Tornior e Sorrentino. Se nei racconti dedicati ai pazienti i due sembrano rigidi, inflessibili o distaccati, in realtà si dimostrano umani e fragili, con i propri sogni di rinnovamento infranti dalla realtà. Sorrentino, ad esempio, notò che i “reparti aperti” si dimostrarono a poco a poco luoghi di controllo e chiusura anziché dialogo e apertura. Per Tornior la situazione è stata più tragica: non solo per vicende personali, ma anche per l’impossibilità di un sogno di un altrove. Questo perché Tornior giunge alla conclusione che per la realtà del manicomio è difficile dialogare col mondo esterno in maniera serena e aperta:
Lui, nell’altrove, non c’era mai stato davvero, il manicomio era piuttosto il luogo dove l’altrove finisce, e il repartino era diverso anche da quello. Un giorno ci sarebbe andato, nell’altrove: solo non aveva idea del come.
Carlo Colnaghi: racconto d’artista in gabbia fra realtà e finzione
La storia più struggente, però, è quella di Carlo Colnaghi, attore noto per il suo sodalizio con il regista Daniele Segre. Qui Valente ci consegna un piccolo racconto d’artista che tanto ricorda il Lenz di Georg Büchner. L’autrice, infatti, sembra collegare arte e vita, la “pazzia” di Colnaghi e il suo anelito alla libertà:
Gli spazi trasformano le persone – ne era sempre convinto – e poi anche le assenze di spazi, gli spazi costretti, le gabbie, perché se il corpo è rinchiuso la mente soccombe, e in un modo o nell’altro per tutta la vita lui aveva cercato di rifuggire ogni forma di reclusione. Ma come si può riuscire nell’impresa? “Io mi trovo nello stesso posto del leone in gabbia”, diceva.
Come gli altri, anche Colnaghi avverte lo scontro fra la libertà, la realizzazione delle proprie idee e la realtà. Nel suo interesse verso la realtà, l’attore voleva cercare di interpretare l’esistenza, di catturarne l’essenza e darle un senso. Come il già citato Lenz büchneriano, anche Colnaghi, però, deve presto rassegnarsi all’impossibilità di afferrare il mondo e di controllarlo:
Che l’universo sia immenso e i fatti che accadono in questo mondo accadano senza che ne siamo a conoscenza dimostra che la mente non ha controllo più di quanto non ne abbia il nostro piede sinistro: la mente non è in grado di comprendere l’enormità degli eventi, si limita a tentare in ogni modo di collocarli in un certo ordine, per fittizio e arbitrario che sia – com’è nella sostanza l’ordine – per non perdersi, e in questo tentativo costante finisce spesso per disperarsi. Come imbattendosi in se stessi in un lungo labirinto nel quale si sia stati confinati a lungo.
Quella di Colnaghi e dei “paz” di Altro nulla da segnalare non è soltanto sintomo di una malattia mentale; è anche la consapevolezza dell’impossibilità della libertà e del conseguimento dei propri ideali, della comprensione il mondo e la propria esistenza. Si approda, così, all’accettazione della finitezza dell’uomo e della realtà attorno a essa, e dunque all’ostinazione a non lasciare andare ciò che è ormai perduto.
«Altro nulla da segnalare»: frammenti di un tentativo di libertà
Le storie di Altro nulla da segnalare (acquista) sono «frammenti lucidi in un’esistenza sgranata. […] la fotografia di un ritorno»: il ritorno dei “paz”, dei medici e degli infermieri del “repartino” e di Carlo Colnaghi alla vita, alla libertà, possibile soltanto grazie alla scrittura di Valente, consapevole che «le storie non vanno a finire, semplicemente s’interrompono», e che solo mescolando la parola e la memoria possono continuare. Continuare a vivere, a volare nella letteratura.
È questa la differenza più grande tra le persone, dice Tornior a Sorrentino: alcuni le cose le pensano, è naturale, altri ritengono sia opportuno dirle, quelle cose che in testa non sono strane ma quando escono non si sa che effetto possano avere. Quindi certi stanno fuori e certi altri stanno dentro. E non è detto che quelli fuori abbiano idee migliori di quelli dentro.
Fonti bibliografiche
Miriam Massone, “Quante storie da raccontare si celano dietro le vite dei paz”, «La Stampa», Torino, 20 aprile 2022
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