Amitav Ghosh: «La grande cecità» della cultura verso i cambiamenti climatici

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Il cambiamento climatico e i suoi disastri riguardano tutti. Nessuno ha un’esenzione particolare. Nessun cartellino magico o titolo luccicante potrà sottrarci da questa urgenza. Legambiente ha registrato in Italia 132 eventi climatici estremi soltanto da gennaio a luglio 2022, indicandolo come il dato più alto degli ultimi dieci anni. Piogge intense, trombe d’aria, frane, siccità, ma anche caldi estremi e fenomeni che causano danni alle infrastrutture, sono solo alcuni degli eventi che si stanno intensificando.

Nonostante tale consapevolezza, si è agito e si agisce come se così non fosse. Lo sguardo sembra non tenere la presa e, repentino, si poggia e vaga altrove. Sempre più importanza viene data ultimamente ai movimenti per il clima che riescono ad attirare una maggiore attenzione su di sé. Si pensi al recente caso dei Girasoli di Van Gogh, il cui vetro protettivo è stato imbrattato da due attiviste del movimento Just Stop Oil o i diversi sit-in sul Raccordo di Roma.

Eppure, da parte dei mezzi di informazione, il tutto appare strumentale, volto essenzialmente al fine di “far notizia”. L’emergenza climatica trova spazio in giornali e articoli o con il mero scopo di alimentare una polemica o per i suoi disastrosi effetti, che di lì a poco verranno sorpassati da altre notizie.

«La grande cecità», l’Antropocene e la posizione della letteratura.

Se, da una parte, questa sordità si presenta all’interno del complesso mondo dei media, dall’altra, non esenta ambiti come la letteratura. A tal proposito, un J’accuse moderno, rivolto all’intero e vasto mondo della letteratura, proviene dallo scrittore, giornalista ed antropologo indiano Amitav Ghosh che, nel 2016, pubblica un libricino destinato ad avere risonanza mondiale: La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile.

La traduzione più conforme al titolo originale sarebbe in realtà Il grande squilibrio. Ciononostante, utilizzando la parola «cecità», la versione italiana colpisce nel segno, riassumendo l’atteggiamento della letteratura (e più in generale, dell’essere umano) nei confronti di tali sconvolgimenti. Soltanto riacquisendo una nuova capacità di visione ed immaginazione, si potrà far fronte al problema, che, secondo Ghosh, ha origine da una matrice essenzialmente culturale.

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L’effetto globale che tale saggio ha suscitato non può che risiedere nel carattere tutto umano – e, per questo, universale – di cui esso tratta. Per questo motivo sentiamo parlare di Antropocene, come nuova era geologica che vede l’uomo come una forza tellurica che sta cambiando il pianeta, imponendosi come uno zoccolo pesante che calpesta una terra conquistata. Egli è divenuto un modellatore capace di mutare radicalmente e irrimediabilmente le sorti della Terra che lo ospita.

In questo panorama, si inserisce la trattazione di Ghosh, intenta ad essere un punto interrogativo rivolto in particolar modo ai suoi colleghi scrittori. La sua domanda è semplice: di fronte all’Antropocene e ai cambiamenti climatici, qual è la reazione della letteratura?

L’alterità dei cambiamenti climatici…

Il pensiero dello scrittore indiano si basa essenzialmente sul mettere in risalto la lacuna creatasi all’interno della narrativa in fatto di cambiamenti climatici, che sono ormai secondo lui confinati al solo ambito dei saggi. A parere di Ghosh, le modificazioni atmosferiche e terrestri hanno, per l’essere umano, un carattere altro, non-umano. Generano in esso un effetto perturbante e spaesante.

Per spiegarlo al lettore, viene presa ad esempio la foresta delle Sundarban, situata tra l’India e il Bangladesh, e le tigri che qui vi si possono incontrare. Inoltrandosi in luoghi come questo, è infatti possibile entrare in contatto con degli esseri animali che ci sono, ma di cui è facile dimenticarsene: «lo spaesamento che producono» afferma lo scrittore «risiede proprio nel fatto che in incontri come quelli con la tigre riconosciamo qualcosa cui abbiamo voltato le spalle: vale a dire la presenza e la prossimità di interlocutori non-umani».

Così come le tigri, il clima e i suoi sbalzi bussano di colpo alla porta dell’uomo: l’autore parla di riconoscimento, come di un «baleno», una «consapevolezza preesistente», che torna dinanzi a noi e ci riporta, da una condizione di ignoranza, ad una di conoscenza. È quella prima sillaba «ri-» a descrivere la rinnovata percezione di un qualcosa che vi era in precedenza e che, dopo esser stato temporaneamente rimosso, torna a galla nella mente. Il baleno infatti «non può divampare se non in presenza del suo altro perduto».

…e il loro confinamento al solo ambito dei saggi

I cambiamenti climatici hanno dunque un carattere fin troppo destabilizzante, per poter entrare nei racconti prevedibili della narrativa e, soprattutto, del romanzo. La letteratura diviene complice di questo squilibrio. Il critico letterario Franco Moretti sostiene che il romanzo sposta «l’inaudito verso lo sfondo» e porta «il quotidiano in primo piano». Lo stesso Amitav Ghosh, in un’intervista per il settimanale L’Internazionale, ha evidenziato come la letteratura contemporanea sia incredibilmente incentrata su problemi e questioni identitarie dell’essere umano.

Il mondo della narrativa si è dunque isolato nel microcosmo interiore dell’individuo, eludendo di fatto tutto il resto. Così, per forza di cose, le questioni antropoceniche hanno assunto il carattere della trattazione e della saggistica, divenendo, in qualche modo, argomento per pochi, incapace di sconfinare nella letteratura “per tutti”.

L’ambiguità della forma letteraria nell’Accordo di Parigi

Un altro sorprendente spunto viene fornito da Ghosh nel penultimo paragrafo della sezione finale del volume, intitolata Politica. Qui egli prende in esame il 2015, anno in cui compaiono due pubblicazioni che trattano gli stessi temi, ma in maniera estremamente differente: l’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco e l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.

Nel confrontarli, lo scrittore evidenzia la chiarezza espositiva e pragmatica del primo, in contrapposizione alla complessità strutturale e all’opacità del secondo. L’autore afferma:

«dato che si conclude con delle preghiere, si potrebbe pensare che l’Enciclica contenga più illusioni e pii desideri rispetto all’Accordo. Invece no, non è così. È piuttosto l’Accordo di Parigi a invocare ripetutamente l’impossibile»

Egli fa riferimento al fatto che l’Accordo ponga i suoi obiettivi sui progressi tecnologici, i quali sono però ancora ai primi passi, incapaci di esercitare da soli una resistenza tale da contrastare l’azione distruttiva di un clima mutato ed imprevedibile. E continua: «riporre tanta fiducia in quella che per ora è solo una remota possibilità equivale a un vero e proprio atto di fede, non dissimile dalle credenze religiose».

Di fronte ad un testo religioso, l’atto opera di delegati e diplomatici da ogni parte del mondo risulta più vacuo, ambiguo al punto da non nominare mai al suo interno la parola «disastro» e soltanto una volta la parola «catastrofe», limitandosi a trattare di «impatti» ed «effetti dannosi».

Andare verso la cura di una società cieca

Lo scrittore indiano Amitav Ghosh, dunque, smaschera attraverso questo breve saggio l’incapacità di un vedere reale della nostra cultura. La letteratura si è ammalata, divenendo alleata di una cecità che José Saramago ha descritto perfettamente nel suo omonimo libro, in cui afferma: «secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono». Il vedersi si profila in tal senso come una piena connessione con l’altro, una capacità di saperne percepire l’essenza interiore, sia tra esseri umani, che tra questi e la natura con la quale si relazionano.

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Margherita Coletta

Classe 1998. Laureata in Letteratura Musica e Spettacolo, con una tesi in critica letteraria. Attualmente studia Editoria e Giornalismo a Roma. Le piace girovagare e fare incontri lungo la via. Appassionata cacciatrice di storie, raccontagliene una e sarà felice.

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