Amore

Call letteraria: Biglietto del museo

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Amore. Allora è così. È questo l’amore tra due persone. Due esseri che amano senz’altro, senza avere mai udito la parola “amore”. Non hanno orecchie per sentire. Hanno solo cuore e corpo, corpo e cuore. Sono sordi alle definizioni, alle parole, al verbo. Ci sono soltanto loro. E stavolta si vede che è amore vero. Stavolta le vertigini si scorgono sui volti di entrambi. O meglio, sul volto di lei. Speri che ti guardi, e invece no. I suoi occhi sono chiusi, le palpebre si abbassano a contenere tutti i crepiti e gli scoppi bianchi su sfondo nero, il retro della visione del mondo. Speri che ti guardi, e invece no. Il suo mondo è diverso dal tuo. È il mondo dell’amore. Un mondo che si cela dietro e dentro di lei e che palpita sulle guance rosate. Un attimo prima ti ha visto, forse. Ti ha visto prima di abbassare le palpebre e scappare di là del sipario. Ma se credi ti abbia guardato, ti sbagli. Lei ha visto ben poco. Ha visto abbastanza e ha deciso che per un attimo il mondo non basta, che vuole di più. Allora ha iniziato a guardare con il corpo. Altre dimensioni si sono spalancate al di là del sipario. Un mondo fatto di sensazioni soltanto. La fronte liscia e rilassata, la bocca piccola sul mento ampio. Sprofondare nel richiamo della terra che la desidera, non è affar suo. Il suo corpo è una crisalide che non ha peso.

Era nata nei sobborghi di Vienna e a dieci anni entrò nella casa della Signorina. Non sapeva né leggere né scrivere. Alla Signorina Flöge, la piccola analfabeta non poteva che fare comodo. Non appena era entrata in casa sua, le aveva affidato un compito in apparenza molto semplice. Ogni giorno doveva recarsi alla posta centrale per imbucare le sue lettere. In questo modo, il contenuto della corrispondenza e il destinatario sarebbero rimasti sempre ignoti.

La bambina trascorreva tutta la giornata nel grande cuore austro-ungarico. Una volta uscita dal palazzo della Signorina Flöge, passava accanto ai caffè della Ringstrasse, dove le signore la guardavano dall’alto in basso sotto i loro cappellini da giorno, e poi davanti a operai boemi e moravi che si impolveravano nei cantieri del Burgtheater, del Municipio e di altri edifici monumentali che adesso adornano i libri di architettura. Per andare alla posta, poi, svoltava per le viuzze dove incontrava solo servi e cameriere come lei. Non immaginava che cosa contenessero le buste bianche che la padrona le metteva in mano. Quando vagabondava, non provava niente, solo il piacere di trovarsi da sola. Passava giornate intere senza scambiare parola alcuna, se non il buongiorno e l’arrivederci con l’impiegato della posta. Non aveva amici e non sapeva cosa volesse dire averne. Al contrario, i rapporti umani la spaventavano. Le persone la fissavano spesso, soprattutto le donne, con gli occhi sgranati e liquidi sotto il trucco pesante. Le bambine della sua età, invece, non la consideravano neanche. Era invisibile e povera. La miseria trapelava dall’abito striminzito fatto proprio dalla padrona. Pur molto ricca e amante della moda dell’epoca, la Signorina Flöge aveva deciso di risparmiare su quell’abitino e l’aveva cucito sui ritagli di scarto delle sue stoffe.

Una volta accadde che la Signorina la mandò alla posta molto tardi. Era quasi l’ora di cena e il buio si faceva sempre più vicino alla luce ovattata che filtrava dai lampioni. Lungo la Ringstrasse, i muratori si affrettavano a casa. I caffè erano vuoti: i ricchi signori si riversavano sulle strade o si erano rinchiusi nelle carrozze. Il viavai della sera la confondeva e la risucchiava allo stesso tempo. Era solo una bambina immersa nella grande Vienna; fu facile sbagliarsi. La strada, sicura di giorno, di notte divenne una rete di arterie identiche che la spingevano, a ogni svolta, verso il nulla di chi ha perso anche la certezza di casa. In quel momento le parve che il disprezzo della gente fosse diventato il disprezzo della città stessa. Le strade che conosceva a memoria la rigettavano come un corpo estraneo.

Lui attraversava la piazza diretto verso casa. Aveva già passato in rassegna tutta la parte est e l’indomani avrebbe cominciato a setacciare il resto. Dapprima gli era sembrato semplice, ma quel pittore era introvabile. Non l’aveva mai visto in un caffè o a passeggio per la città. Si credeva tanto famoso da non avere più niente da spartire con la società viennese, oppure il suo estro creativo lo risucchiava fino alla perdita di ogni contatto con il reale? Un pittore invisibile, le cui opere, da sole, testimoniavano il suo passaggio sulla terra. Calciò una pietra di un cantiere vicino, arrabbiato con sé stesso. Il sogno di diventare giornalista d’arte sembrava tanto distante quanto il suo artista. Sarebbe rimasto uno studente appassionato, uno tra tanti. L’unica speranza era l’intervista a quel grande talento, la cui fama cresceva ogni giorno a Vienna. L’artista dell’oro e delle donne, almeno così dicevano. Mentre camminava con lo sguardo basso e la testa gli doleva per il tanto pensare, si accorse che la pietra che aveva calciato era ruzzolata al fianco di un fagotto di vestiti. Si fermò. Il fagotto si alzò in piedi. Aveva la faccia rigata di lacrime. I capelli rossicci contornavano il viso di una bambina.

«Ehi!» esclamò lui con gli occhi spalancati.

«Cos’hai da guardare?» gli chiese lei, asciugandosi le lacrime con l’abito, una tunica di ritagli di stoffa, un tempo colorati. I tratti erano piacevoli ma la miseria trapelava dal vestito sbiadito e sporco, un velo impotente di fronte al freddo della sera.

«Starai gelando».

«Sì, sto gelando».

Lui si abbassò alla sua altezza e la guardò in viso, ignorando i capelli sudici e la tunica macchiata di fango.

«Che cosa fai qui fuori?»

«Aspetto che la città si fermi».

«Ti sei persa?»

Lei annuì.

«Dove abiti?»

«Non lo so». E prese a fissarsi i piedi scalzi.

Come liberarsi di lei? Non poteva lasciarla dove l’aveva trovata: sarebbe morta nella notte, da fagotto, così come l’aveva trovata. Non aveva nemmeno un cappotto che la coprisse dal gelo che scendeva inesorabile. Poi prestò attenzione al vestito. Un abito improbabile, sformato, di piccoli ritagli di stoffe diverse. A guardarlo da vicino, gli scampoli non parevano avanzi di pezze di scarsa qualità. Al contrario, alcuni erano damascati con rappresentazioni di fiori o elefantini, altri erano lavorati a pied-de-poule o in velluto goffrato. C’era seta leggerissima e chiffon a pois, tra inserti di lana dai colori accesi. Dove aveva trovato quei ritagli pregiati? La bambina tremava. Lui le porse la sua giacca. La copriva fino al ginocchio, squadrandole le forme, ancora poco pronunciate. A quel gesto, lei gli tese qualcosa. Era una busta bianca.

«Dovevo spedire questa alle poste», disse lei stringendo la busta come chi si aggrappa alla sua ultima speranza.

«Puoi voltarla?»

Lei ubbidì e la girò adagio fino a mostrarne il dorso. Un francobollo e in corsivo, tra gli svolazzi di una mano femminile, un indirizzo:

“Gustav Klimt, Bandgasse 8, Vienna”.

Gli occhi di lui, già enormi, si fecero profondi e scuri.

Quando il pittore la vide, ebbe un sussulto.

«Emilie? Ti manda Emilie?» Lei annuì. Non aveva mai sentito nessuno chiamare la Signorina Flöge “Emilie”. Il pittore non si curò della busta, la gettò sul tavolo già ricolmo di cibo, stracci sporchi di tempera e pennelli. Li fece entrare.

«L’ho trovata in piazza con la busta in mano. Aveva il suo indirizzo, allora ho pensato che la conoscesse», spiegò lui.

Il pittore non lo ascoltava. Disse solo: «Mettiti lì, mia cara». Lei si spostò piano sotto la luce della lampada a olio. Il pittore la scrutò da vicino.

«Una bellezza sorprendente», disse girandole attorno come un’ape su un fiore.

«Mi scusi», fece lui, frapponendosi tra il pittore e la bambina. «Lei ha freddo e trema. Può darci l’indirizzo di Emilie? Dobbiamo proprio andare a casa».

Fu questione di istanti e lei si sciolse in pianto. Le piccole membra stanche erano giunte al limite della sopportazione e ora si lasciavano andare a lacrime e singhiozzi.

Lui non esitò. Si inginocchiò e la avvolse tutta, accogliendo il suo peso quasi irreale.

 I capelli rossi gli sfioravano il collo, mentre la veste di lui si bagnava della paura di lei. Con le palpebre abbassate in un apparente sonno profondo, lei si abbandonava al calore del corpo di lui. Il giovane che fino a poco prima si era arrovellato su un artista introvabile non mostrava all’artista che i suoi ricci neri. Non erano più la cameriera e lo studente, la bambina e il giovane. In quel momento lui le posò sulla guancia un piccolo, tenero bacio. Erano puro amore. E Gustav lo sapeva.

Amore. Allora è così. È questo l’amore tra due persone. Non si conoscono, ma si leggono l’anima. Se il corpo di lei cade, quello di lui ne raccoglie i resti, i ritagli damascati o di cotone. Eccoti al Belvedere di Vienna; hai infilato il biglietto nella tasca dei jeans, hai percorso le sale con l’attesa negli occhi e, una volta al primo piano, è questo che scorgi di fronte all’opera di Gustav Klimt. Un mantello d’oro e di piccoli decori degni di una stilista di nome Emilie Louise Flöge. La mano che disegna la tela, il colore che si stende da sé e si espande in cerchi e quadrati è solo un nome sulla testa di un uomo che sa dipingere anche il non detto. Due stelle che si scontrano in una galassia in espansione come la Vienna di fine Ottocento. Due stelle che si uniscono in un momento d’oro, bagliore del più piccolo atto d’amore. È questo che scorgi, se guardi bene, oltre le mani delicate dell’abbraccio necessario, oltre il bacio, classico come le note di un pianoforte e antico come la luce del primo sole. Ti ricordi del tuo biglietto nella tasca dei pantaloni e ti chiedi se una tela così valga soltanto un pezzo di carta stampata. Oltre la cornice sottile e invisibile, limite fittizio di un contenuto impalpabile, adesso, per te che osservi, c’è solo un puro istante d’amore.

Racconto di Anna Lorenzon / Fotografia di Annalisa Insinna

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Redazione MM

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