L’odore del bianco

«Il continente bianco» di Andrea Tarabbia

16 minuti di lettura

«Quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro». Quante volte ci è capitato di leggere questa frase di Nietzsche? Sembra ormai diventata una frase di quelle da tirare fuori per sembrare acculturati agli occhi degli altri, ma in realtà nasconde una verità innegabile: il nostro fascino per il Male e la nostra tendenza a indagarlo fino in fondo negli altri e soprattutto in noi stessi.

Sembra saperne qualcosa Andrea Tarabbia, per il quale fare letteratura significa toccare tutto ciò che è torbido: continuare a mettere le mani nel fango per farne scrittura. Dopo il Premio Campiello nel 2019 con Madrigale senza suono, l’autore di Saronno è tornato in libreria alla fine dello scorso agosto con Il continente bianco (Bollati Boringhieri).

Il romanzo, tra i dodici candidati al Premio Strega 2023, è stato presentato da Daria Bignardi con la seguente motivazione:

È un romanzo forte, elegante, complesso, sul fascino del male ma soprattutto sul fascino della letteratura e dello scrivere. […] È un libro sul Male che fa male non solo per gli ambienti estremi e i personaggi bui e contorti che evoca, anzi, decisamente non per quelli, ma per come una storia scritta tanti anni fa possa rimanere viva, pericolosamente viva, quando a guardarla, a rileggerla, a tornarci dentro, è uno scrittore letterariamente audace come Tarabbia. Ecco, è questo soprattutto che mi ha colpito di questo lavoro originalissimo anche nella struttura: è vivo come un animale pericoloso, come il serpente che segue il narratore all’inizio del libro.

La trama di «Il continente bianco»

Prima di parlare del nuovo romanzo di Tarabbia, si tengano a mente queste tre persone: uno psicologo di nome Filippo, sua moglie Silvia e un giovane di estrema destra senza nome. Chi è avvezzo alla letteratura italiana contemporanea sa che loro sono i protagonisti di L’odore del sangue, romanzo incompiuto dello scrittore vicentino Goffredo Parise pubblicato postumo nel 1997 e trasposto al cinema nel 2004 da Mario Martone.

Andrea Tarabbia parte da questo romanzo incompiuto per scrivere un romanzo totalmente nuovo, Il continente bianco, in cui lui stesso si fa personaggio per raccontare una storia diversa che intende dialogare e in qualche modo completare il libro di Parise:

[…] il libro, signori, ha reagito, si è divincolato ed è guizzato via come una serpe, è fuggito, si è infrattato, per anni non si è lasciato afferrare: il suo segreto (poiché ogni libro contiene un segreto) si è fatto oscuro, esoterico, quando invece mi era parso luminoso, manifesto. Allora sono salito su un treno. Ho lasciato alcune cose che avevo, altre le ho tenute con me: mi sono messo a cercare, come un archeologo. Il risultato, come vedrete, è ben misero. Ma, almeno, la serpe ha smesso di strisciare. O forse sta solo riposando. Le serpi, del resto, non sono libri.

Come una serpe, il libro di Parise continua a sfuggire a Tarabbia, che proprio con questo suo nuovo romanzo vuole provare a inseguire quello che poteva essere – perché è morto prima della sua pubblicazione – il vero intento dell’autore vicentino: scoprire il fascino del Male e di tutte le pulsioni autodistruttive dell’uomo.

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«Il continente bianco» e il confronto con l’incompiuto «L’odore del sangue»

Come ogni autore che si rispetti, Tarabbia si dimostra essere in primo luogo un buon lettore capace di dialogare con ciò che legge attraverso la scrittura. Con questo suo nuovo romanzo, l’autore cerca di interpretare e dare un senso a un romanzo come L’odore del sangue che, proprio a causa della sua incompiutezza, dà spazio a più interpretazioni possibili.

Rispetto al modello originale, Tarabbia opera un cambio di prospettiva. Se nel romanzo di Parise la narrazione è affidata a Filippo – un narratore, dopotutto, inaffidabile, che cerca di controllare con la razionalità ciò che vede –, nel caso di Tarabbia la narrazione è affidata a un io autofinzionale – il cognome “Tarabbia” appare due volte nel romanzo –, mentre Filippo è ridotto a un semplice dottor P***. Questo cambio di prospettiva è dovuto al fatto che, se in Parise lo scopo era quello di dimostrare la sottomissione ai propri sentimenti, la pulsione verso l’estremo e la volontà di controllo, in Tarabbia, invece, lo scopo è semplicemente quello di indagare il fascino del Male e la presunta purezza di chi lo esercita.

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Un altro aspetto fondamentale è anche l’oggetto di indagine, che nei due romanzi è diverso. Se nel modello di Parise l’oggetto dell’indagine è Silvia, colei che in un certo senso è sottomessa al Male, in Tarabbia lo è il giovane di estrema destra, colui che il Male lo esercita, a cui viene dato un nome: Marcello Croce, il cui cognome è indicativo della sua natura di Cristo che parla alle masse e trascina gli altri con sé verso il Male, attraverso la sua organizzazione di estrema destra Continente bianco, da cui il titolo del romanzo.

Tarabbia, uno scrittore e narratore che naviga nel torbido

Come nel precedente Madrigale senza suono, anche qui Tarabbia adotta una doppia narrazione. Se nel primo abbiamo Igor Stravinskij e Gioachino Ardytti, servo di Gesualdo Da Venosa, qui il narratore diventa lo stesso Tarabbia. Se Stravinskij ragionava sul rapporto fra musica e sentimenti cupi come quelli che hanno portato Gesualdo a uccidere sua moglie Maria D’Avalos, Tarabbia, invece, ragiona sul rapporto fra la scrittura e il Male. Il legame che ci presenta l’autore è qualcosa che lo porta inevitabilmente a fallire:

[…] ho sentito l’impulso di raccontare, di mettere il mondo per iscritto: ma visto che ne avevi un’esperienza vaga, astratta, ho studiato la Storia (che altro non è se non una grande scatola che contiene le vite compiute degli altri – e queste vite io le ho dunque osservate dall’alto e da lontano) e ne ho scritto; ma a un certo punto questo non è più bastato: ho sentito che dovevo scrivere qualcosa di diverso – e ho provato a farlo ma, ecco, ho fallito.

L’autore cerca sempre soluzioni attorno ai problemi che indaga, spesso ricorrendo a libri che conosce e che confluiscono in ciò che scrive,. La scrittura, però, richiede un gioco di memoria e riscrittura che spesso comporta «una stortura, un abominio». Nel parlare di Marcello Croce e del suo fascino per il Male, Tarabbia – sia il personaggio che l’autore in carne e ossa – comprende che c’è sempre qualcosa che sfugge alla propria indagine, e la scrittura non diventa altro che un modo per confermare l’incompiutezza del romanzo di Parise da un lato e l’impossibilità di comprendere appieno la natura dell’uomo.

Marcello, un Cristo che predica il Male

Per conoscere il Male, Tarabbia si avvicina alla sua fonte primaria, ovvero Marcello Croce, l’uomo che porterà Silvia al triste epilogo che i lettori di L’odore del sangue già conoscono. L’autore ci descrive questo enigmatico personaggio non come un semplice teppista dalle tendenze fasciste, come fa Filippo/il dottor P***, ma con lo sguardo di colui che cerca di capire la vera natura di ciò che osserva:

È un individuo delicato, fragile all’apparenza. Sembra uno di quei Cristi disegnati nei libriccini del catechismo per bambini: biondi, buoni, puliti e calmi anche nel mezzo di una tormenta di sabbia o di un incendio, con uno sguardo che sembra dirti che non ci saranno problemi, se lo seguirai, che non ci saranno il Male né il dolore e tutto alla fine sarà giusto.

Questa descrizione che il narratore fa di Marcello ben si collega al discorso sulla purezza e sul bianco, che Tarabbia mette in bocca a Werner, uno dei membri del Continente Bianco, partendo da La superficie di Eliane di Luigi Malerba:

E a questo nostro Continente, che è bianco non per via dell’innocenza, ma della purezza: la purezza non è come l’innocenza, perché può essere brutale, quando viene associata, anziché al candore e all’ingenuità, a certe specificità, a certe esclusività. La purezza mette una linea bianca tra ciò che è nostro e ciò che è altrui, tra ciò che può continuare a vivere e ciò che, invece, può e deve morire.

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Il fascino del Male, dunque, è strettamente correlato a quello per la purezza, ovvero all’esclusione di tutto ciò che non rientra nella nostra visione delle cose. Il Male di Marcello Croce viene generato per il semplice fatto che quest’ultimo ha creato un sistema di valori in cui tutto ciò che non rientra nei suoi parametri deve essere sradicato ed eliminato. Ciò che appare brutale ai nostri occhi nell’osservare le azioni di Marcello per lui, invece, è in realtà un modo di fare il Bene, poiché frutto di una visione distorta del mondo che lui interpreta come corretta. Quello che per noi è il Male per il giovane è un modo per garantire la vita.

Il Male come forma di potere e di amore distorto

La noia borghese di Silvia, così come i rom o i senzatetto sono tutto ciò che, nella visione distorta della realtà di Marcello, costituiscono il Male, come dimostra il seguente esempio delirante sui topi da laboratori:

L’esperimento dei topi dice questo: chi può fuggire, fugge; ma chi rimane, qualunque sia il motivo per cui rimane, ha soltanto due possibilità: se si lascia andare, muore; se odia, se trova un nemico e lotta, vive. […] È per questo che siamo qui. E perché sei qui anche tu. Per vivere. È così? O forse credi che siamo nati soltanto per raccontare delle storie sui ponti di Roma e fare a pugni nelle stazioni abbandonate con dei romeni?

Il Male che esercita Marcello verso gli altri, dunque, è un Bene distorto, qualcosa creato dal nulla per poter esercitare il potere sugli altri. Il controllo di cui parla viene considerato dallo stesso una specie di forma d’amore: si sottomette l’altro per permettergli di vivere e, nel caso in cui non dovesse rientrare nei parametri dettati dalla visione distorta di Marcello, lo si lascia morire.

Il giovane, dunque, ha creato un mondo in cui ciò che è giusto e sbagliato è determinato da un metro soggettivo: il Male e la violenza sono per lui un modo distorto per preservare la vita e per dare amore agli altri, quando per noi le sue azioni sono atti di crudeltà da condannare. Stabilire universalmente cos’è Bene e cos’è Male, allora, appare difficile, e per uno scrittore come Tarabbia controllare questa definizione e stabilirla risulterà sempre un tentativo fallito.

«Il continente bianco»: raccontare un mondo sottile e piano

Se Parise si interrogava sull’odore del sangue, con Il continente bianco (acquista) Andrea Tarabbia s’interroga, invece, su quello del bianco e della purezza. Dialogando con il modello di Parise e con tanta letteratura italiana e non, Tarabbia ancora una volta dimostra quanto sia difficile indagare il Male e delimitare il confine fra ciò che è giusto e cosa no, in quanto tutto dipende dalla prospettiva che si adotta per osservare gli altri. Ciò che appare puro, pertanto, può essere o può portare in realtà al Male.

«Il mondo è sottile e piano» disse. «È semplice, ha dei confini limitati, circoscritti, che lo rendono facilmente comprensibile, se hai un posto da dove guardarlo. Io ce l’ho […] tu no, non ce l’hai, o almeno non credo, perciò vaghi, frughi nelle vite degli altri per dare un senso alla tua. Ti affascinano cose terribili e questo fascino ti spaventa, perché hai paura che, nascosto dentro questo sentimento, ci sia qualcosa che dice che, nel tuo profondo, sei un uomo peggiore di quello che credi di essere».

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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