Andreea, la vergogna di un pesce nello stivale

«Male a est» di Andreea Simionel

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Male a est

Se c’è qualcosa che ancora manca nella letteratura italiana, è una vera narrazione sull’integrazione nel nostro paese, scevra, cioè, da ogni mitizzazione e retorica buonista. Siamo abituati, infatti, a un racconto sull’integrazione molto idealizzato che consiste nel ritrarre la perfetta coesistenza fra il migrante e il suo paese d’approdo.

Quello che, però, sottovalutiamo è che il racconto che si fa dell’integrazione è originato dalla nostra prospettiva, non da quella di chi in Italia vi approda. È questa prospettiva, dunque, a mancare. Un racconto sull’integrazione da un’angolazione diversa ha provato a darlo Andreea Simionel, autrice rumena ormai da diversi anni trapiantata a Torino, con il suo nuovo romanzo Male a est, ultimo titolo della collana «Incursioni» della Italo Svevo Edizioni.

La trama di «Male a est»

La protagonista di Male a est è Andreea Paval, che all’inizio del libro incontriamo a dieci anni in Romania, precisamente a Botosani, al confine con la Moldavia. Andreea vive con sua madre e sua sorella, mentre il padre lavora all’estero e manda loro dei soldi periodicamente. Il padre di Andreea vive in Italia, realtà che Andreea e la sua famiglia conoscono attraverso la televisione, che ritrae il belpaese come un luogo dove ci sono «i commissari e le donne con i capelli neri delle telenovele e tutti parlano veloce».

Un anno dopo, Andreea raggiunge il padre a Torino assieme alla madre e alla sorella. Lì la protagonista si troverà di fronte a un nuovo contesto, ma soprattutto a una nuova lingua che dovrà imparare mettendo da parte la sua lingua d’origine. L’integrazione di Andreea, però, risulterà difficile, in quanto la protagonista vivrà la vergogna di essere diversa, e sarà costretta a rinunciare alle sue radici.

«Male a est»: un modo diverso di narrare la migrazione

Simionel racconta in Male a est non solo un’esperienza di sradicamento e integrazione in maniera del tutto inedita rispetto a ciò a cui siamo abituati, ma anche un modo di vivere nel proprio paese lontano dalla guerra e dalla povertà, come sempre si usa fare in racconti di migrazione. L’aspetto interessante che vale la pena menzionare è innanzitutto l’assenza di riferimenti alla politica nella sezione dedicata alla Romania, chiamata Pesce.

Sebbene sembri irrilevante, questo elemento fa capire l’originalità della narrazione di Simionel, che evita di tirare in ballo la politica e la storia del proprio paese – il riferimento a Ceausescu si riduce soltanto a una fotografia che si vede nella casa dei vicini – per raccontare la propria esperienza di migrante. Simionel ci presenta la vita della protagonista – ma in fondo anche la sua – come qualcosa di normale, simile alla nostra, cercando di scardinare la retorica del migrante che vive a cavallo fra due mondi e che fugge dal proprio paese per la guerra.

Raccontare e tematizzare lo sradicamento

Tuttavia, sebbene Simionel cerchi alla fine di raccontare come lei sia in realtà parte di uno stesso mondo come gli altri, la prospettiva adottata nel raccontare questa storia ci dimostra, invece, un senso di sdoppiamento e sradicamento. Simionel adotta sì una narrazione in prima persona, ma per rendere al meglio lo sradicamento che narra decide di creare un altro da sé, ovvero il personaggio omonimo di Andreea Simionel, che nulla ha a che fare con la storia di Andreea Paval, quest’ultima corrispondente all’autrice, sebbene con qualche connotato diverso:

Andreea è davanti a noi. È bella, Andreea. Per distinguerci, siamo Paval e Simionel. Io la pi, lei la esse. Io capelli neri, lei biondi. Io bassa e tozza, lei alta e magra. Io occhi verdi, lei azzurri. Io mate, lei rumeno. Lei prima della classe, io seconda. Anzi, no. Noi tutto, sempre.

Questo sdoppiamento dell’autrice in due persone agisce su due piani: da un lato serve a Simionel per prendere la giusta distanza da ciò che racconta senza cadere nell’idealizzazione della sua esperienza, e dall’altro serve a tematizzare la perdita di identità e di lingua di cui Simionel in quanto persona in carne e ossa ha fatto esperienza arrivando in Italia.

L’Andreea Simionel del romanzo, dunque, destinata a non comparire più nel romanzo – ed è l’unica anticipazione che si può dare – serve all’autrice in carne e ossa per tematizzare quel senso di vergogna e sradicamento che trasuda in tutto il romanzo. «Non sto cambiando il mio nome», dirà la protagonista, «è che dopo un po’ non ha più senso difenderlo. Lo lasci andare, a bordo della barca a vela delle lingue degli altri».

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«Non abbiamo più una lingua in cui dire»

Lo sradicamento che racconta Simionel agisce soprattutto a livello linguistico. In una sua recente intervista per «L’Espresso», infatti, l’autrice afferma quanto segue: «non avevo una lingua, dovevo trovarla. Ho lavorato molto su questo: è stata una lotta con una bestia selvaggia». Nel suo romanzo, Simionel ben tematizza questo aspetto della lotta con la lingua. Le riflessioni in questo senso riguardano non solo il rumeno, ma anche l’inglese e l’italiano: «Io e mia sorella», afferma la protagonista, «non parliamo più rumeno. Italiano, al massimo inglese. Rumeno mai. Vorrebbe dire che c’è una cosa che ci unisce. Io e lei, non ci unisce niente».

La riflessione sulla lingua ben si intreccia con i concetti di origine, famiglia e appartenenza. L’inglese, ad esempio, associato al manuale con le oche che dialogano fra loro, viene definito una lingua non intelligente, lasciando intendere che venga considerata un meccanismo automatizzato che serve solo per comunicare lo stretto necessario, mentre l’italiano è «una lingua sterile», «deficiente», «una vacca» che «s’infila dentro la bocca con le sue zampe e te la divarica, come le forbici per tirare fuori i bambini dalla fica». Una lingua che non dà la possibilità di esprimere la propria storia e la propria identità, che serve a estirpare l’abitudine, ovvero la lingua rumena: «Il rumeno è un riflesso, un’abitudine» secondo la protagonista, «se riusciamo a controllarlo, estirpiamo l’abitudine».

L’omologazione e la rimozione linguistica forzata

La perdita definitiva della lingua rumena lascia intendere una problematica che, nel parlare di integrazione, spesso viene trascurata: quella della vergogna. Nel raccontare la sua vita nella scuola italiana, Andreea ben ritrae il senso di vergogna di essere qualcos’altro rispetto agli altri, ma anche un’omologazione forzata e sistemica agli altri voluta dalla scuola, che non ammette la diversità:

Noi ci dobbiamo amalgamare, come le strisce di colore sulla carta. Noi dobbiamo stare nei contorni. Noi dobbiamo avere pronunce impeccabili. Noi dobbiamo smettere di esistere in una lingua, rinascere nell’altra. Noi ci dobbiamo integrare, diventare irriconoscibili.

Per diventare irriconoscibile, Andreea è costretta, dunque, a rinunciare al rumeno, ad arrivare addirittura a non comprendere ciò che le viene detto nella sua lingua d’origine. Ciò si nota, ad esempio, nella scena della gita in cui la protagonista si imbatte in un rumeno ubriaco che le parla nella sua lingua e lei fa finta di non capire.

Il senso della vergogna

L’idea di cercare di eliminare ogni traccia della propria lingua e identità non è nuova in letteratura. Basti pensare, ad esempio, a La macchia umana di Philip Roth, dove Coleman Silk rinuncia alla sua identità di afroamericano spacciandosi tutta la vita per ebreo americano per meglio integrarsi in America, oppure a In piena luce della sudafricana Zoë Wicomb, dove la protagonista Marion Campbell ha vissuto tutta la vita in una famiglia meticcia che è riuscita a farsi passare per bianca e ha estirpato l’afrikaans per meglio integrarsi nel Sudafrica dell’apartheid.

Questi esempi sono utili da tenere a mente, perché quello che racconta Simionel è simile a quanto narrato da Roth e Wicomb. Simionel racconta un’integrazione che si fonda su un senso di vergogna originato da un sistema sociale che vuole estirpare ciò che è diverso e non risponde ai propri canoni, a partire proprio dalla lingua:

Allora come oggi, siete tutti uguali. Se anche vi dicessi il nome del pesce, dopo vorreste sapere dove, di preciso. Se poi io lo dico, voi mi chiedete di ripetere, io ripeto, voi non capite e io do da mangiare alla vergogna.

«Male a est»: Andreea è un pesce nello stivale

Se si potesse dare a Male a est (acquista) un titolo alternativo prendendo spunto dai romanzi di Herta Müller – rumena come Simionel, e come lei da sempre in cerca di una lingua da abitare – questo potrebbe sicuramente essere Andreea è un pesce nello stivale: un pesce – la Romania per la protagonista è «un piccolo pesce nel Mar Nero» – che si muove sì liberamente, ma il suo approdo – in questo caso uno stivale, l’Italia – non è altro che il luogo in cui morirà.

Simionel ci racconta un’integrazione scevra da ogni idealizzazione e retorica buonista. Vivere in Italia per un migrante equivale a vivere con un grande senso di vergogna di essere diverso instillato a livello sistemico, con la volontà di imparare una nuova lingua non tanto per meglio integrarsi, quanto per estirpare ciò che ci rende diversi. Integrarsi, dunque, vuol dire cancellare ogni residuo delle proprie radici: dimenticarsi del proprio passato per vivere nel paese che ti accoglie.

Noi siamo malati di estero. Noi siamo malati di Italia, Spagna, Grecia, Inghilterra. Siamo malati di Europa. Non abbiamo più niente da dirci, niente da dire alle persone intorno. Non abbiamo più una lingua in cui dire, non abbiamo più intorno. Noi stiamo bene, non abbastanza bene. Noi abbiamo la data di scadenza. Prima di andarcene, vado dalla maestra e le do il mazzo di fiori che mia madre mi ha fatto portare. La maestra si accovaccia di fronte a me e mi stringe le spalle. «Buona fortuna», dice.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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