«I genitori sanno perfettamente che l’infelicità ad essi connaturata la perpetuano nei figli, ma nella loro crudeltà vanno avanti a fare figli e a gettarli nell’ingranaggio dell’esistenza». Così scriveva Thomas Bernhard in Il soccombente parlando di Wertheimer, uno dei protagonisti, rimasto orfano di entrambi i genitori a seguito di un incidente e, per non restare solo, ossessionato dall’idea di tenere a sé la sorella tirannizzandola. L’autore austriaco è noto per rappresentare i legami familiari come tossici, capaci solo di perpetrare il dolore di membro in membro catapultandoli in un circolo vizioso senza fine.
Una simile rappresentazione della famiglia la troviamo anche in Angeli di sale, romanzo opera prima di Francesco Marangi, finalista alla XXXV Edizione del Premio Italo Calvino e quarto titolo della collana Interzona diretta da Orazio Labbate per i tipi di Alessandro Polidoro Editore.
La trama di «Angeli di sale»
In un paese senza nome della costa ligure si muovono le vicende dei protagonisti di Angeli di sale: Sandro, ormai vecchio e incapace di prendersi cura del tutto dell’azienda agricola di famiglia, e i figli Bruno, Clara e Pietro. Quest’ultimo è il figliol prodigo che torna alla sua terra, ma a differenza della parabola raccontata nel Vangelo di Luca, qui non incontra un padre misericordioso disposto ad ammazzare il vitello più grasso che ha per festeggiare il ritorno alla vita, bensì una famiglia che, orfana di madre, non fa altro che continuare a vivere nel dolore e nel rancore.
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A complicare ulteriormente le cose è anche il senso di colpa che attanaglia in particolare Pietro e Bruno, che ha a che fare non solo con la scomparsa della madre Laura, ma anche con la famiglia di Maria e suo fratello Enrico, affetto da disabilità intellettiva, anche loro orfani di genitori, in quanto, nonostante l’amore che i due fratelli provano per Maria, alla fine quello che le danno è solo il dolore a cui ormai i due sono abituati.
«Angeli di sale»: dal Calvino all’Interzona
Quando si tratta di testi finalisti al Premio Calvino, bisogna sempre tener presente che possono subire dei cambiamenti nel momento in cui si arriva alla pubblicazione del libro. Non è esente da ciò nemmeno Angeli di sale, che il cambiamento significativo l’ha subito nel titolo.
Inizialmente, infatti, si chiamava Risacca, un titolo esemplificativo di quello che l’autore ligure racconta. La risacca non solo è il moto di ritorno di un’onda che si scontra con un ostacolo, ma è anche la corrente di risacca, che trascina via con sé in maniera impetuosa tutto ciò che incontra sul suo cammino. La risacca dei protagonisti è la scia di dolore e violenza che li porta a una sofferenza senza fine, a quell’ingranaggio dell’esistenza di cui scrive Bernhard da cui è impossibile uscire.
Il titolo definitivo Angeli di sale, invece, deriva da una frase che dice Clara nel corso del romanzo: «Sono paralizzata. Un angelo di sale, scolpito dal fiato marino. Godo solo sentando il calore di un corpo vivo. Godo perché respiro nel loro respiro». Se, come detto prima, la risacca del mare risveglia nei protagonisti ricordi dolorosi che li condannano a una violenza senza fine, il fatto di essere un angelo di sale scolpito dal fiato marino rende ancora meglio l’idea di trovarci di fronte a persone che paradossalmente per vivere hanno bisogno della sofferenza, del sangue. Tutti loro respirano e vivono in quanto scolpiti da quello stesso male che li porterà a un triste epilogo.
Le influenze letterarie: da William Faulkner a Thomas Bernhard
Sia a livello stilistico che tematico, Francesco Marangi deve molto a due autori: il già citato Thomas Bernhard e William Faulkner, riferimenti esplicitati anche in quarta di copertina. Se sul primo ci siamo già espressi prima, l’influenza del secondo, invece, è molto presente, in particolare se consideriamo i romanzi Mentre morivo e L’urlo e il furore, opere che come in questo caso si confrontano con una famiglia di contadini stravolti dal dramma della propria vita.
Il romanzo, infatti, è narrato alternando i punti di vista di Pietro, Bruno, Clara, Sandro, Maria ed Enrico, quest’ultimo un personaggio che ricorda molto Benjy Compson, una persona innocente che, a causa del proprio ritardo cognitivo, viene coinvolto a sua insaputa nella violenza a cui sono condannati gli altri personaggi. Tutti loro raccontano le proprie vicissitudini attraverso un monologo interiore e uno stile modernista ed espressionista, che gioca tutto sul detto e non detto, sulle allusioni: non è importante per il lettore sapere chi è responsabile di certe azioni, bensì sapere che tutti i protagonisti non riescono a trovare una rinascita da un passato pieno di cicatrici e sofferenza. Non c’è un solo colpevole nelle vicende narrate: tutti sono coinvolti in questo vortice di dolore e rancore.
In questo senso di condanna è importante tenere a mente la citazione in esergo di Wallace Stevens e il riferimento alla «mitologia della morte moderna». Il racconto di Angeli di sale è mitico nel senso pavesiano del termine, ovvero è da intendersi come rassegnazione al proprio destino di infelicità e sofferenza e come consapevolezza dell’incombenza della morte sulle nostre vite.
Importante per Marangi è anche l’influenza di scrittori liguri. La Liguria ritratta da Marangi non viene esplicitata a livello di toponomastica, bensì attraverso i riferimenti agli ulivi, alle serre, al clima mediterraneo, al paesaggio cangiante – da collinare e roccioso a pianeggiante – e al libeccio che provoca le mareggiate. Il fatto di non nominare direttamente la Liguria ne rende il paesaggio un luogo dell’anima tratteggiato come fatto da Francesco Biamonti ed Eugenio Montale, ovvero emblema di quella che il primo definì «corrosione dell’esistenza», terra di confine che rispecchia il vuoto e la solitudine di chi la abita.
La Liguria degli angeli di sale
Per capire bene in che senso questa Liguria è da intendersi come luogo esistenziale, sarebbe bene concentrarsi su quanto dice Clara a riguardo:
Ho preso la forma della terra furente in cui sono cresciuta: pareti di roccia, crepacci masticati dall’onda; il salino mi fora la pelle mi passa sotto nel sangue, si calcifica in formazioni ossee mai viste. Servono a sorreggere l’immensità del mio corpo, sostengono il mio deformarmi paesaggio. […] E mi consumo, mi consumo in solitudini di sabbia.
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L’espressione chiave in questo brano è «il mio deformarmi paesaggio». Il paesaggio ligure si fa più impervio e corroso nel momento in cui i drammi dei protagonisti si fanno più forti e senza via d’uscita. In giro per le strade si sente solo l’odore e il rumore del mare, che «sembra abbia risucchiato ogni cosa», mentre il vento che causa il mare grosso è un vento caldo, proveniente «dall’Africa, dalle terre calde e violente bagnate dal sangue», che mettono sullo stesso piano i cadaveri «di tutti quelli che hanno provato a fuggire» e i protagonisti del romanzo, «disperati e crocifissi» e incapaci di cambiare il proprio destino.
L’incapacità di cambiare il proprio destino è dovuta al fatto che la terra abitata dai personaggi è «gravida di dolore», formata dalle ossa sepolte dei morti che non fanno sconti a nessuno, che non perdona, anzi, tortura chi la abita con il senso di colpa per gli errori commessi e il dolore inferto agli altri:
Pa’ ha ragione a dire che questa è una terra che non perdona. Vuole sentire sempre la fatica altrimenti si lascia andare, diventa troppo grassa o troppo magra e non serve più a nulla. A volte mi viene da pensare alla terra che coltiviamo come a una donna, le camminiamo sul corpo e piantiamo ortaggi nell’incavo dei seni, fra le scapole, lungo la colonna vertebrale, piantiamo zucchine e cavoli e carciofi, la fronte ornata di pomodori, le mani impastate del suo odore, in ginocchio dentro al suo ventre.
Storie sulla pelle
Quello che avvertono i protagonisti, in particolare Pietro, è «un richiamo di essere sepolti» fra «brandelli di stelle e polvere» dove «ritrova le cicatrici misteriose». La loro è una sepoltura in vita, un vivere sommersi dalle ossa e dalla violenza. Come comprende Bruno ricordando il cadavere di un uomo ritrovato nel bosco, il loro valore sta nella terra che lavorano con fatica, nel dolore che questa gli conferisce:
A volte penso che è per questo che voglio portarmi un dolore sempre dietro. Perché senza, io non ho valore. Quello che sudo nella terra, la mia fatica, tutto di me rimane sepolto con le ossa dell’uomo coperto di stracci. Ora mi porto dietro il suo dolore e il mio, siamo una cosa sola. Mi sembra come se volessi morire, ci provo ma alla fine mi va sempre tutto bene. Con altro sangue posso lavare quello versato. Così vago rabbioso cercando lo scontro, devo bagnare le mani nel dolore di qualcuno
Bruno, e come lui tutti gli altri, non possono fare altro che ingaggiare una lotta contro se stessi. Qui trova riscontro l’angelo di sale di cui parlava Clara e a cui fa riferimento il titolo del romanzo: i protagonisti respirano perché sono il male e la colpa che hanno commesso a farli vivere. Per continuare a vivere, hanno bisogno di qualcuno che infligga loro ancora più male, ancora più dolore, poiché paradossalmente la loro salvezza sta nel sangue e nella morte, ciò che annulla la sofferenza e li fa ricongiungere con quella stessa terra di ossa e polvere composta dai nostri cari, da chi non c’è più, l’unico modo possibile per ottenere il perdono.
«Angeli di sale»: tornare alla terra, tornare alla polvere
Angeli di sale (acquista) è un romanzo che, riprendendo una tradizione letteraria ben consolidata a livello stilistico e contenutistico, riesce a raccontare una vicenda individuale universalizzandola. Nel paesaggio impervio e duro della Liguria e nel dolore di Pietro e i suoi fratelli, non si può non riconoscere il dramma di ognuno di noi: il dramma di chi fugge, di chi resta e ritorna; il dramma di chi vive perennemente col senso di colpa e di chi non sa trovare una via d’uscita dalla propria sofferenza; il dramma di chi trova nella morte l’unico perdono possibile al proprio tormentato passato.
Quando sarò morto rimarranno solo i muretti. Il resto è polvere e ulivi. Morirò con i calli alle mani, nella tomba, sotto la mia terra, coi calli alle mani e un odore di sale e alghe dentro una cassa di legno. Nelle orecchie il rumore delle onde sarà sempre più vicino. Aspetterò nel mio bozzolo di terra. Non rimarrò sepolto per sempre. Lei è andata via come andranno via tutti, alla fine. Ma da qualche parte poi, al largo, sul fondale, ritroverò tutti quelli che si sono persi e che si perderanno. E quando la corrente si sarà placata e ci sarà silenzio il mare si aprirà con uno squarcio. In una catastrofe di luce e potenza apriremo gli occhi un’ultima volta, sospesi in aria, a miliardi, per assistere al miracolo. Anche le cicale rimarranno mute nel delirio.
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