Il suo primo atto di fede del giorno era stato aprire gli occhi.
Il suo primo istinto era stato quello di richiuderli, di tornare a crogiolarsi nello spazio tra sogno e veglia e negare un inizio alla giornata.
Grazia si sarebbe volentieri sottratta al teatro delle circostanze che l’attendeva: dalla famiglia che affollava la casa di prima mattina, alle interminabili ore della messa, fino ai festeggiamenti. Era stato il pensiero della madre ad averla convinta a tornare a casa in occasione della comunione di Daniela, una delle sue numerose cugine.
Quando aveva deciso di trasferirsi un’intera penisola più a nord per proseguire gli studi, Grazia aveva visto il cuore di sua madre creparsi come consunta porcellana alla prospettiva di una distanza a cui tuttavia non si era mai opposta. Grazia, consumata da colpe a cui non era stata in grado di dare né voce né forma, si era ripromessa di sincerarsi che non si frantumasse, timorosa che se avesse distolto gli occhi per troppo tempo i solchi sarebbero diventati irreparabilmente profondi.
Non potendo ignorare a lungo il richiamo delle chiassose voci che animavano la casa, si rassegnò a dover trascorrere la mattinata navigando tra un coro di esortazioni che le intimavano di fare presto in toni ascendenti e forme che si immergevano gradualmente in profondità dialettali: “buongiorno, alla buon’ora”; “annacati che è tardi”; “avimu u ‘ndi spiccjamu, capiscisti?”.
L’ultima tappa era stata la cucina, rifugio delle donne più anziane della famiglia e quindi il luogo che aveva evitato più a lungo. Grazia tollerava discretamente gli immoderati inconvenienti di una coesistenza forzata ma non le era mai piaciuto sentire su di sé i loro occhi lattiginosi che sembravano trapassarla. Al suo posto non vedevano che una creatura chimerica, tra le sue età passate e le loro aspettative sul suo futuro, incapaci di riconciliarsi con la sua forma presente. Grazia avrebbe potuto anticipare tutte le domande a cui non avrebbe davvero risposto, tutte le mezze verità.
Quella che invece l’accolse era una scena diversa da quanto si sarebbe aspettata. Le donne erano riunite attorno al tavolo. La nonna teneva la più piccola delle sue nipoti in braccio con mani ormai raggrinzite ma ancora ferme, che stringevano il corpicino della bambina con la disinvoltura di chi aveva alle sue spalle una vita trascorsa a prendersi cura di quelle altrui.
La bambina era totalmente rapita dalla collana di perle che la donna portava al collo. I suoi grandi occhi le guardavano sbarrati, come per cercare di assorbire quanta più meraviglia possibile. Le sue mani, tondeggianti come quelle di un putto, si aprivano e si chiudevano a vuoto nel tentativo di afferrarle mentre la nonna cercava, senza successo, di ridirigere la sua attenzione verso la torta al centro del tavolo, a sua volta ornata da piccole perle di zucchero.
Nessuno le rivolse più di uno sguardo e Grazia si rifugiò grata in un angolo a fare colazione, contenta di lasciare le donne tubare.
Grazia aveva sollevato lo sguardo al suono del botta e risposta delle risate della bambina e delle donne che la applaudivano per essere finalmente riuscita a stringere tra le dita l’oggetto desiderato, quando l’armonia venne spezzata dallo scroscio di una cascata di perle che piovevano sul tavolo e rimbalzavano sul pavimento.
Grazia si tuffò a raccoglierle tra una cacofonia di esclamazioni e blasfemie, raccattando le perle nelle tasche della gonna del suo vestito.
Con la coda dell’occhio vide sua nonna alzarsi e camminare verso il piano cucina, afferrare un primo pizzico di sale per gettarlo alle sue spalle e un secondo per spargerlo sulla testa della bambina che aveva iniziato a piangere.
Il suo secondo atto di fede era stato entrare in chiesa.
Una parte di lei solitamente dormiente si aspettava in segreto che le sarebbe successo qualcosa di terribile una volta varcata la soglia ma anche questa volta non si era manifestata alcuna prova di collera divina e il suo corpo non si era tramutato in sale.
Abbracciò invece Daniela e si sedette accanto alla madre, preparandosi a ricevere sguardi ostili da parte dei fedeli. Aveva considerato di spingersi a prendere parte alla cerimonia ma le parole le rimanevano bloccate in gola, calcificate.
In verità non era sicura che ne sarebbe stata in grado. Si era accorta non molto tempo fa, sovrastata da un misto di sollievo e angoscia, che preghiere sopravvissute inizialmente alla marcia del tempo erano scomparse dalla sua memoria.
Così Grazia rimase come sempre seduta per la durata della messa, immobile e silente, lasciando che le parole del prete le scivolassero addosso, lontanamente cosciente delle onde di persone che le si muovevano attorno, alzandosi e sedendosi, delle loro voci sollevate in canto e preghiera.
Si mise le mani in tasca e strinse le perle, girandole e rigirandole tra le dita.
Era una bellissima giornata. Il sole di fine primavera penetrava attraverso le vetrate, accendendo di brillantezza il bianco delle tuniche dei bambini riuniti attorno all’altare. I suoi occhi vagavano per la chiesa, oltre le statue di santi dallo sguardo adorante o tormentato per dirigersi poi verso il soffitto, a fissare il blu della cupola. Raggi di luce attraversavano la stanza costellati da fiocchi di pulviscolo che danzavano nell’aria. Grazia si immaginò bambina, immersa a guardare i giochi di luce sulla superficie del mare, cullata dalle correnti.
Rifugiandosi nella sua mente come uno spaurito paguro in conchiglia, lasciò che i suoi pensieri raggiungessero la distesa di un letto, i solchi di un sorriso persi tra le lenzuola, una risata cristallina che foggiava guance in perlescenti gusci di ostrica che custodivano una perfetta fila di denti bianchi.
Il suo terzo atto di fede era stato indulgere la sua prozia ed essersi fatta incastrare in conversazione.
L’errore era stato sedersi accanto a lei per godere della brezza salmastra che filtrava dai vetri socchiusi della finestra del ristorante, rassegnandosi ad ascoltare una storia che le era stata raccontata più e più volte.
Quello della rimembranza era un vizio comune a tutta la generazione più anziana della sua famiglia: come solevano contare religiosamente le perle del rosario prima di addormentarsi, così era un dovere narrare episodi della propria gioventù con la stessa solenne formularità che aveva caratterizzato l’epica antica. Ognuno aveva il suo repertorio: una zia con le storie d’amore che aveva lasciato andare, un’altra con le scorribande dei fratelli e del defunto marito o la nonna che ricordava buone e cattive abitudini di ogni ospite che aveva avuto a tavola. Quando era bambina a Grazia non era mai dispiaciuto ascoltarle, mentre crescendo la pratica aveva iniziato a lasciarle dell’amaro in bocca. Si era maturata in lei la sensazione che le stesse persone che l’avevano cresciuta non facessero ora altro che usarla come un vaso da riempire, lasciandola a custodire indiscriminatamente gioie e dolori che non avrebbe saputo dove riporre.
Il racconto si era interrotto solo quando la donna aveva chiamato a sé la festeggiata con un cospiratorio: “Bella mia, vieni qua”. Daniela si era avvicinata esibendo un mite sorriso di circostanza e aveva lasciato che la zia le afferrasse il polso mentre le rivolgeva un fiume di domande e complimenti. Grazia aveva aspettato che sul viso di Daniela si facessero spazio le prime avvisaglie di malcelato fastidio per cercare di convincere la donna a lasciarla andare, facendole notare che Daniela non aveva ancora assaggiato la torta e sperando che menzionare il cibo l’avrebbe persuasa.
“Ah Grazia, prendimi il borsellino un secondo” rispose, torcendosi goffa e facendo per afferrare il manico della borsa che qualcuno aveva appeso per lei alla sedia. Grazia obbedì.
“Ecco qua” disse la zia porgendo a Daniela una moneta da cinque centesimi, il rame ormai scolorito dall’usura. “Quando la zia ti dà il regalo me li devi restituire, capito? Va’ mangia gioia mia, va’!” e si allungò per congedarla con un buffetto sulla guancia, il sonoro schiocco della sua mano sul volto a rendere il gesto più vicino a uno schiaffo che a una carezza.
Si voltò poi verso Grazia con l’espressione ammiccante di chi si compiace della propria furbizia: “Non si sa mai che sai come si dice: le perle sono lacrime! Vedi queste che ho alle orecchie? Me le aveva regalate…”.
Un sonoro crack fece eco nella stanza, seguito dal sordo impatto di ceramica che si infrangeva contro il terreno.
Daniela, la cui espressione era contorta dal dolore, si teneva una mano alla bocca e fissava sbigottita il sangue che le aveva indiscriminatamente macchiato la pelle e le vesti.
Diversi adulti si erano precipitati al suo fianco senza capire cosa le fosse successo, chiedendole come si fosse fatta male, insistendo perché qualcuno la accompagnasse al bagno e che fosse chiamato un medico.
Una volta dispersa la folla, Grazia si era avvicinata al tavolo.
Un piatto si trovava in frantumi sul pavimento assieme a una fetta di torta quasi intonsa e non molto lontano da essi giaceva una singola perla coperta di sangue.
Grazia si chinò a raccoglierla.
“Ah focu meu!” esclamò la zia, ancora seduta nel suo angolo. “Avimu u ‘ndi sdocchjamu!”.
Il suo ultimo atto di fede della giornata era stato entrare in acqua.
Aveva abbandonato le sue scarpe sul bagnasciuga e aveva camminato fino a che le onde non le arrivassero a lambire l’orlo del vestito facendolo ondeggiare intorno alle sue gambe come la campana di una medusa.
Il sole di tardo pomeriggio rendeva la superficie del mare incandescente ma l’acqua si rivelò spietatamente fredda al tocco. Un brivido le lacerò i polpacci e salì ad accarezzarle la schiena, lento e inesorabile, l’insinuarsi di una crepa nel marmo.
Grazia sospirò, tremula.
Si tolse le perle dalle tasche e le lasciò cadere una a una, lasciando per ultima quella insanguinata, sentendosi più leggera all’eco di ogni tonfo.
Le guardò affondare gentilmente, sangue e sale sulle dita e il crepitio di parole inespresse che battevano contro i suoi denti agitandosi in rivolta.
Racconto di Martina Natale
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