L’arte di Zehra Doğan non si ferma nemmeno nel carcere di Diyarbakir. I suoi dipinti con il sangue mestruale fanno il giro del mondo, sono il grido delle donne che bramano la libertà.
«Avremo anche noi dei bei giorni» e la questione curda
Mi sento come le città assediate da tutti i lati
Mi sento disperato
I sogni vengono bombardati
Le speranze vengono circondate dai fili spinati
I sentimenti vengono sparati senza scrupoli
Sono i versi di Luce santa, la poesia dell’autore curdo Doğan Akçali che in versi racconta l’oppressione di un popolo, la sofferenza delle persone private dei propri sogni. Zehra Doğan, in Anche noi avremo dei bei giorni, racconta la resistenza curda, una resistenza femminile che ha come protagoniste delle donne forti che non perdono la speranza e la voglia di vivere nemmeno nel carcere di Diyarbakir.
É il 2016 quando Zehra Doğan, giornalista e artista, viene arrestata a causa di un disegno diffuso sui social, che riproduceva la città di Nusaybin distrutta dall’esercito turco. L’accusa di propaganda terroristica non tardò ad arrivare, la pena prevedeva due anni, nove mesi e ventidue giorni di prigione. La donna non si ferma, viene privata dei suoi colori, della carta, ma continua a dipingere con quello che trova. Per i suoi disegni usa salsa di pomodoro, fondi di caffè, scarti trovati nella spazzatura, sangue mestruale.
La sua arte è viva, nasce da materie vive, dal desiderio di libertà di espressione. I pennelli che usa sono fatti con le piume degli uccelli, con i capelli delle sue compagne che se li tagliano per permetterle di continuare a dipingere. Oltre a dedicarsi all’arte, Zehra Doğan scrive lunghe lettere, spesso al buio, alla giornalista turca Naz Öke. La donna è impegnata nella lotta per la libertà di espressione e a Parigi scrive sul sito di informazione Kedistan.
Le due giovani quasi non si conoscono, di certo non si sono mai viste, ma lettera dopo lettera allacciano un rapporto stretto, un’amicizia indissolubile. Zehra Doğan dà voce ad un paese oppresso, al coraggio delle donne che non si piegano al sistema, non nascondendo i momenti di difficoltà, lo sconforto. «Prova ad essere felice in un mondo come questo», scrive amareggiata.
Quel femminismo diffuso in carcere
Il carcere viene descritto come un edificio soffocante: «è fatto di corridoi stretti, con tetti bassi, come se fosse concepito per opprimere». Il mondo reale è distante, inarrivabile. Alla giornalista mancano le piccole cose, i dettagli che trasformano la vita in qualcosa di più di un susseguirsi di giorni e di volti. «É difficile descrivere la nostalgia che si può sentire per un fiore».
Zehra dice che in prigione «si impara a ridere più sonoramente, a essere più felici. […] Si sente maggiormente la spiritualità del mondo. Viene il desiderio irraggiungibile di sapere tutto». In carcere la lotta femminista non si ferma. Le donne uniscono le loro forze nella consapevolezza che la liberazione dal sistema schiavista sarebbe potuta avvenire solo dopo averlo insieme.
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«Avremo anche noi dei bei giorni»: lingua madre e madre lingua
Nella Turchia della repressione raccontata in Avremo anche noi dei bei giorni (acquista), la lingua diventa una forma di resistenza. I totalitarismi possono sottrarre alle popolazioni qualsiasi cosa, dalle case alla libertà, ma nei confini della propria lingua le persone potranno trovare ancora il loro respiro.
E quando i muri crollano e restano solo macerie e polvere, nel trapezio vocalico, nelle sfumature prosodiche, si costruiscono le pareti di casa. La lingua madre è il mezzo di collegamento con l’esterno, la lingua in cui si formano i pensieri, in cui prendono forma i sogni. Perderla significa perdersi. «Abbiamo ancora paura della nostra lingua […] una politica della paura che ci fa autocensurare». L’autrice riconosce fin da subito l’importanza del linguaggio, mostrando attenzione rispetto alle tematiche di genere. Infatti nelle lettere che scrive a Naz Öke i nomi compaiono nella doppia forma maschile e femminile, causando a volte un po’ di ridondanza. Zehra Doğan lo sa che l’inclusività passa anche dalla lingua, lei che non può quasi parlare la sua.
«Per annientare un popolo, i conquistatori iniziano con l’annientare la sua lingua. Di conseguenza, per noi la pratica della nostra lingua è anche una forma di resistenza […] qualunque persona che rinunciasse alle sue terre e alla sua lingua diventerebbe estranea alla sua stessa cultura».
Nelle sue lettere, Zehra Doğan racconta la storia di Leyla e dei processi che continuavano a trascinarsi per le richieste di potersi difendere nella propria lingua. Le parole sono una forma di potere e al tempo stesso di libertà, proibire alle prigioniere l’uso del curdo significa condannarle ulteriormente, negare la loro individualità che si forma anche tramite il linguaggio.
Si tratta di una madre lingua, un organismo che dà vita, un posto in cui tornare. In alcuni passaggi, Zehra Doğan ricorda Kübra Gümüşay, altra autrice curda che in Lingua e essere sottolineava l’importanza del multilinguismo spiegando che quando una lingua non è sufficiente a riprodurre un significato ci si appella alle altre con la consapevolezza di aver bisogno di tutte le proprie lingue per essere.
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