Una Penelope tessitrice di assenze

«Babajaga» di Gaia Giovagnoli

13 minuti di lettura
Babajaga

Nelle tradizioni folkloriche di tutto il mondo, un ruolo principale lo assumono le streghe e più in generale le donne anziane. Si pensi, ad esempio, a Frau Holle con i suoi cuscini sprimacciati le cui piume fanno nevicare sulla Terra, ma anche a Baba Jaga, personaggio del folklore slavo spesso paragonata a una strega dai poteri magici e oggetti incantati che spesso aiuta i protagonisti delle fiabe nei loro percorsi iniziatici.

Babajaga è anche la nuova silloge poetica della poeta romagnola Gaia Giovagnoli, che dopo Teratophobia e le recenti incursioni narrative di Cos’hai nel sangue e Chiedi se vive o se muore (entrambi per nottetempo) ritorna alla poesia inaugurando la nuova collana per poeti under 35 Obtortocollo di Industria & Letteratura diretta da Riccardo Frolloni, già autore per la casa editrice di Massa con la silloge Corpo striato.

Le poesie di «Babajaga»

Babajaga vive nel regno dei gusci vivi
queste sue poche cose le obbediscono e la sostengono.
In alcune storie, però, le diventano infedeli e
si rivoltano. In storie come questa

Questi sono alcuni dei versi iniziali di Babajaga. La storia è quella della strega del folklore slavo, reinterpretata in chiave contemporanea da Gaia Giovagnoli. Babajaga vive con un gatto parlante in una casa che si regge su due zampe di gallina in un bosco dove la betulla ha la chioma d’ossa. Attorno a lei ci sono gusci d’uovo che si fanno vivi a volte disobbedendo e diventando infedeli alla propria padrona.

La storia di Babajaga è una storia ambientata in un tempo sospeso dove fiaba e contemporaneità si incontrano. La sua storia è anche quella di una donna abbandonata dal proprio amato, un eroe che, finito il suo percorso iniziatico nell’amore per la strega e la donna, l’abbandona senza mostrarle segni di gratitudine, bensì lasciando tracce di un’assenza difficile da colmare.

Il metodo mitico in «Babajaga»

Gaia Giovagnoli fonde mito e contemporaneità per confrontarsi con un tema molto importante come quello delle relazioni e dell’assenza, già affrontato nella sua narrativa, specie nel suo ultimo romanzo Chiedi se vive o se muore. Nell’esergo di questa nuova silloge, infatti, Giovagnoli cita Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, per il quale «il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo». Il mito, quindi, è da intendersi non solo come mitologia, ma anche come strumento per esprimere l’accettazione del destino e della fine.

Questa sovrapposizione fra mito e contemporaneità è la stessa che abbiamo già visto in opere poetiche o in prosimetro di autori come T. S. Eliot (La terra desolata) e Anne Carson (Autobiogafia del Rosso) e che prende il nome di metodo mitico. Giovagnoli, infatti, racconta attraverso la storia di Babajaga quella di una donna che vive in un presente in cui è stata abbandonata dalla persona amata.

La storia qui narrata, però, è inedita rispetto al mito, molto intima e personale, legata molto probabilmente alla Giulia a cui la silloge è dedicata, e lo si capisce ad esempio dal nome, che invece di essere scritto staccato – Baba Jaga o Baba Yaga – è scritto tutto attaccato, come spiegato nel post scriptum: «ti chiamai Baba Jaga», scrive Giovagnoli, «perché non avevi un nome. Dicesti: ‘meglio unito’. Babajaga. Ti piacevano le streghe. Avevi i capelli corti ed elettrici».

Il confronto con la narrativa di Giovagnoli

Per ciò che concerne il confronto con il folklore, Babajaga risente dell’influsso della narrativa di Gaia Giovagnoli. Se in Cos’hai nel sangue, ad esempio, la storia di Caterina Foschi, la strega di Coragrotta, è ispirata alla storia di Santa Caterina da Siena, Chiedi se vive o se muore si ispira, invece, ai tarocchi. A livello contenutistico, Giovagnoli attinge come per la sua narrativa alla tradizione folkloristica per creare un immaginario sospeso fra sogno e realtà, passato e presente.

A livello tematico, invece, è più facile fare un confronto con il secondo romanzo. Le storie di Babajaga e India, quest’ultima protagonista di Chiedi se vive o se muore, sono incentrate su relazioni amorose tossiche, in cui l’amore diventa una forte dipendenza difficile da gestire, specie quando ci si confronta con l’assenza o l’abbandono. Entrambe le donne, però, ricorrono alla magia – gli oggetti incantati o i tarocchi – per esorcizzare il proprio dolore e l’assenza e diventare in grado di controllare il proprio amore. Ciò avviene nel momento in cui, come afferma India in questo brano, si riesce ad avere controllo dei propri ricordi: «costruire a posteriori gli errori degli adulti dà molte soddisfazioni: fa ipotizzare l’origine di quello che siamo, nel bene e, soprattutto, nel male».

Nella casa della strega

Babajaga ci viene, quindi, presentata in maniera diversa rispetto alla tradizione folkloristica slava. Non è una strega di cui tutti hanno paura e che con le sue prove di iniziazione porta gli eroi a crescere, ma è una donna sottomessa all’amore, che una volta abbandonata deve confrontarsi con il proprio dolore. La temibile casa di Babajaga è, infatti, una casa che più che avere in sé le tracce della paura ha quelle della tristezza e dell’abbandono.

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Questa casa, inoltre, «sa di squarci», la sua strada «è un tappeto/di ossa rotte», i cani non staccano le mani dai polsi dell’uomo, mentre la serratura di denti «solo a lui che non ritorna/apriva un ghigno» e i bambini che mangia in realtà sono «un grumo di pelle» che gli è caduto nel bagno, segno di un amore finito che non si può perpetuare nemmeno con una nascita. Attorno a lei non c’è altro che un accumulo di macerie dettate dall’assenza:

L’inventario dei cocci
conta due bicchieri rotti;
un coltello con il manico scollato;
il pettine del bagno
che ha sputato un altro dente;
la solita tovaglia
ha fatto i buchi

La casa appartiene all’uomo

Babajaga non è più la strega che morde, ma è quella che viene morsa da un cappotto di lana appeso in casa, che viene punta dai rovi del bosco e ferita dai cocci abbandonati per casa. Cocci che deve raccogliere per andare avanti, per sistemare una vita spezzata, e per farlo cerca in ogni modo di tenere a sé il proprio amato, proprio come faceva la persona reale a cui si ispira Giovagnoli. Nel post scriptum, infatti, si legge quanto segue:

Mi dicesti di lui che ti lasciò come si fa con una favola. Provasti a tenerlo a te con ogni mezzo – i tentativi disperati di bloccarlo con laghi e con muri. Capisti però che non era possibile. Qualcosa non aveva funzionato. Era da te che fuggiva. Dalla strega che eri.

Babajaga non è più la strega che fa fuggire le persone di sua iniziativa, ma è ormai una donna che non vuole che venga abbandonata, e fa di tutto per tenere con sé le persone amate. Lei riempie la casa di oggetti che non hanno più poteri magici per mettere in difficoltà gli altri, ma contengono spettri che la infestano e la riempiono di dolore. Questi spettri sono quelli dell’assenza dell’amato:

Ma da dopo la fuga gli oggetti hanno occhi
pesanti e un respiro. Ricorda.
L’uomo da allora li abita: il suo spettro è nelle
cose, vive in quelle bucce, le fa scosse e inquiete

Tessere l’assenza

La casa appartiene all’uomo, che ha lasciato alla strega un lago in cui affogare, difficile da prosciugare per impedire all’uomo di scappare, e un muro di cancrena che risuona di sensi di colpa che echeggiano negli oggetti, ma anche nelle telefonate senza risposta, nelle voci di donne al supermercato che le danno la colpa, e nel materasso «[che] si sfonda nel centro/perché ha imparato il peso di due/e non ritratta».

La donna comprende che «non lo esorcizzi chi è vivo di oggetti./Non lo esorcizzi chi, sempre, non se n’è ancora/andato». Non si può cancellare l’assenza, poiché è evidente negli oggetti usurati dal tempo, dalle cicatrici che ci lascia. Babajaga non può far altro che tessere una tela dai resti dell’amato, dai capelli lasciati nel pettine, dal gonfiore nel cuscino. Babajaga è una Penelope che tessa la tela non per prendere tempo, ma per recuperarlo: per far sì che l’amato torni, se non fisicamente, almeno nei ricordi.

Caro spettro:
ti cerco nelle cose
di casa nostra
e aspetto
– ma ritorna
io faccio piano
lo fanno tutti
ma torna presto

Di gusci vivi pieni di spettri

Gaia Giovagnoli riesce in Babajaga (acquista) a dare una sua versione del mito nel senso pavesiano del termine. Babajaga diventa una strega che si confronta con l’accettazione sempre più dolorosa del suo destino: un destino di assenza e abbandono. La donna lo fa attraverso il ricordo, tessendo una tela di oggetti logori, cocci e macerie che rendono possibile la convivenza con il dolore e l’assenza, perché in fondo, se non si può recuperare fisicamente quanto perduto, lo si può fare attraverso la memoria.

Dicono molti
che i morti si infilano
dentro la stoffa
che i morti si incastrano
nei nodi di lana
– che si stendono nelle lenzuola
dei letti disfatti
che si mettono dentro i vestiti
e li fanno freddi

Dicono che certe streghe
li tessono dentro gli stracci

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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