Il biglietto giallo indiano

Call letteraria: Biglietto del museo

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Il biglietto del museo era giallo indiano: lo sapeva perché aveva insegnato arte in un vecchio liceo, quando ancora le rughe non gli tagliavano il viso. 

Non c’era nessuno all’ingresso e nessuna coda da superare a sbuffi e occhiatacce, solo un caldo afoso che bagnava le fronti. 

Bazzicava scaracchiando lungo il primo corridoio, mentre osservava le opere una a una.

C’era una bambola, zeppa di fieno e alloro, assomigliava a una delle sue prime studentesse, quella che teneva sempre i capelli legati in trecce e le gonne sopra il ginocchio, quella che s’era accovacciata per un voto più alto, con le labbra sporche di latte. La ricordava grassa, come le termiti che facevano d’alcova le travi della sua soffitta. 

«Puttana» aveva detto tra sé e sé, prima di passare oltre.

Il dipinto di alcuni colli catturò il suo sguardo. Erano gravide di uova le colline, sature e feconde. C’era un contadino disegnato dietro un tronco scuro: i capelli come l’avorio, proprio come i suoi, e una lunga falce, avvezza a tarpar voli di gallina e battiti. Pareva bastardo il contadino, quindi il professore gli sorrise. Ci si rivedeva, come quando la studentessa aveva smesso di portargli le uova. Aveva smesso di sanguinare ogni mese, la cicciona. Lui se l’era scopata e lei era diventata una collina. Lui se l’era scopata ed era diventato un contadino. 

Faceva ancora più caldo nel secondo corridoio, così tanto caldo che il biglietto s’era appiccicato alla mano e la mano ora sapeva di piscio, di giallo indiano, di mucche e foglie di mango. Cercò di asciugarsi il sudore dalla fronte, i capelli s’erano appiccicati e l’aria condizionata tossiva terra e polveri. 

Sotto una teca di vetro, che rifletteva le luci artificiali del museo, un topo supino. Era grigio, dagli occhi vitrei. Era morto.

Non puzzava la carcassa, né sembrava decomporsi: doveva essere imbalsamata. Avrebbe dovuto fare la stessa operazione sul suo cane: quel bastardo gli mangiava sempre le pantofole e pisciava in ogni angolo. Sua moglie lo aveva costretto per le orecchie fino al canile, per scegliere un bassotto o uno di quei cani di piccola taglia, quelli dal pelo lucido e dai denti aguzzi. Perché lui non l’amava abbastanza e lei aveva deciso di amare qualcos’altro. Quando l’aveva preso sotto con l’auto, aveva squittito il cane. E lui aveva sorriso, come aveva sorriso al contadino bastardo. La moglie aveva tanto pianto, più della studentessa gonfia. 

Il caldo era così forte che pareva far sciogliere le pareti, dalla colla e dalla vernice, nell’altro corridoio. 

In fondo, c’era un’ultima installazione: una vecchia porta, sverniciata dal tempo. 

Al professore non piaceva quel museo, l’aveva trovato sciatto, quasi offensivo a tratti. 

Ma quella porta aveva un quid assai strano, quasi romantico. Sentì il bisogno sapere cosa ci fosse dall’altra parte. Immaginava giardini e oro, cascate ialine e altalene, forse cime canute e tozzi ceppi d’ebano dove sedersi a schiacciare uova, dove pisciare e scoparsi grasse studentesse. 

Quando l’aprì però, non ci fu più nulla: non topi supini, né contadini bastardi, non le crisalidi dei sottotetti, né tantomeno le mani grezze delle studentesse; non pittura ad olio, né cani piccoli e taglienti, non prima né tantomeno dopo. La mano sulla maniglia e questa scottava. Scottava come d’estate le pelli d’ambra. Era rovente, bruciava. Come le dune sotto le piante dei piedi. La porta s’aprì e tutto era abbagliante. La colla dietro le orecchie si scioglieva. C’era odore di zolfo e tutto puzzava. La costanza solare, persino quella puzzava. Forse piscio, forse sudore. E tutto scottava. E tutto abbagliava. Non ci vedeva. No, ci vedeva. Vedeva tutto bianco, bianchissimo. E poi rosso, e arancio, come i cieli al calar del sole. Ma lì il sole era alto: e scottava. E bruciava. 

Non c’era l’imbrunire, non c’era l’annottare. Solo il caldo e il bagliore. E il caldo era più forte, più forte di tutto quello che aveva immaginato.

E un passo, verso il bagliore. Verso il calore. 

E allora le fiamme divamparono, d’aceto e di zolfo. 

La pelle bruciava e i denti cadevano. Gli occhi si scioglievano e i capelli diventavano polvere. Polvere. Fu quella l’ultima cosa che vide il professore. Polvere e cenere. La cenere di quel biglietto, cenere giallo indiano.

Racconto di Angelo Pinto / Fotografia di Annalisa Insinna

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Redazione MM

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