«Non c’è più grande agonia che recare una storia non raccontata dentro di te». Così affermava la poetessa afroamericana Maya Angelou (1928-2014), che si è sempre battuta per superare gli stereotipi di razza e di genere. Angelou è stato l’esempio più lampante di come la letteratura sia in grado di dare una voce a chi deve combattere ogni giorno per far valere i propri diritti.
Su questo principio della parola come salvezza si basa Canta ancora, ragazza, romanzo di Jacqueline Roy, autrice londinese di padre giamaicano, che i lettori italiani hanno modo di leggere per la prima volta grazie a Giulio Perrone Editore, che lo ha pubblicato lo scorso novembre con traduzione di Marta Olivi.
Trama di «Canta ancora, ragazza»
Canta ancora, ragazza è ambientato negli anni Novanta in un ospedale psichiatrico di Londra. Le protagoniste sono Gloria e Merle. La prima si definisce «una vecchia, grassa donna nera», è lesbica ed è finita ricoverata per disturbo della quiete pubblica durante la notte per la sua abitudine a cantare e parlare a voce alta. L’altra, invece, è più giovane di Gloria e vive tormentata da traumi di abusi e violenze che si porta fin dall’infanzia.
Le due hanno molte cose in comune: vivono ai margini della società, sono donne, ma soprattutto sono nere. Entrambe hanno origini giamaicane, sono figlie della Generazione Windrush, generazione di immigrati arrivati in Gran Bretagna fra gli anni Cinquanta e Sessanta costretti a vivere illegalmente e senza diritti. Le due impareranno a poco a poco a conoscersi, a scavare nel proprio passato ma allo stesso tempo a salvarsi.
«Canta ancora, ragazza»: il contesto editoriale
Canta ancora, ragazza è un romanzo semiautobiografico, in quanto si basa sulle vicende autobiografiche di Jacqueline Roy. Quest’ultima, infatti, ha origini giamaicane – il padre è lo scrittore e artista giamaicano Namba Roy, di cui l’autrice ha curato la pubblicazione del romanzo No Black Sparrows –, e come Gloria è finita in un ospedale psichiatrico, con l’unica differenza che ci è finita durante l’adolescenza. Come Gloria e Merle, anche Roy ha scoperto la scrittura all’interno dell’ospedale psichiatrico come modo per ritrovare la propria identità.
Il rapporto fra scrittura e identità è una costante fondamentale soprattutto nella letteratura della Black Britain, la letteratura nera della Gran Bretagna. Questo tipo di letteratura è stata riscoperta di recente da Bernardine Evaristo, vincitrice nel 2019 del Booker Prize con Ragazza, donna, altro, dopo aver fondato la collana Black Britain: Writing Back per la Penguin Random House, nata con lo scopo di «correggere i pregiudizi storici dell’editoria britannica e riportare alla luce una miniera di scritti andati perduti». Alla luce di quanto detto sulla Generazione Windrush, questa collana curata da Evaristo, e di conseguenza romanzi come quello di Roy, danno modo a una grande fetta della società britannica di far sentire la propria voce e ribadire la propria identità attraverso la scrittura.
Le differenze fra il titolo originale e quello in traduzione
Questa idea del ribadire la propria identità con la scrittura si percepisce nel romanzo di Roy fin dal titolo. La stessa Evaristo spiega nella prefazione al volume il significato del titolo originale del romanzo, ovvero The Fat Lady Sings:
Il titolo originale del romanzo, The Fat Lady Sings, viene dal proverbio “it ain’t over till the fat lady sings”, che significa che non è possible sapere come andrà a finire una certa situazione finché non finisce davvero. È decisamente appropriato per un romanzo che non offre soluzioni semplici. Il lettore viene accompagnato in un viaggio, ma poi sta a lui o lei determinare, con la propria immaginazione, cosa succede dopo.
Comprendendo quanto sia difficile essere fedeli alla versione originale, la traduttrice italiana Marta Olivi ha cambiato il titolo in Canta ancora, ragazza, mantenendo, comunque, l’intento originale di Roy. Entrambi i titoli danno l’idea di un viaggio che Roy chiede ai suoi lettori di fare, un viaggio che termina soltanto quando Gloria e Merle avranno esaurito il loro compito, cioè salvarsi e farsi ascoltare dagli altri.
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Questo viaggio procede su tre livelli. Il primo è di tipo storico e sociale, e richiede al lettore di addentrarsi dentro certe dinamiche che hanno causato la discriminazione di Gloria e Merle. Il secondo, invece, è a livello di scrittura e struttura del romanzo, in cui al lettore viene chiesto di lasciarsi condurre dalla polifonia di voci – quella di Gloria, quella di Merle e le voci interiori di quest’ultima – e di font – il romanzo è reso graficamente con font diversi a seconda di chi parla – per ascoltare il grido di dolore delle protagoniste. Il terzo e ultimo livello, suggerito di più dal titolo italiano, richiede infine al lettore di percepire Gloria e Merle non come malate di mente o nere, ma come ragazze e donne nella loro purezza e di stringere con loro un legame universale che possa donarle la salvezza definitiva.
Il contesto culturale: una difficile integrazione per la Generazione Windrush
La prima tappa del viaggio che Roy ci chiede di fare è quello del contesto storico in cui anche lei come donna e nera ha vissuto. Durante il suo soggiorno nell’ospedale psichiatrico, Gloria ricorda il suo arrivo in Inghilterra dalla Giamaica fatto di promesse di benessere mai realizzate:
Appena arrivato, mio padre pensava di avercela fatta. Credeva agli slogan. L’Inghilterra ha bisogno di te. E aveva spirito di avventura. Vedere la madrepatria, lavorare duro, mettere da parte un po’ di soldi. E poi tornare a casa. Ma non è andata così, ovviamente.
L’arrivo in Inghilterra da parte di Gloria e di suo padre non è stata, dunque, un’occasione di rinascita. Gloria non ha mai avuto, infatti, l’opportunità di poter integrarsi nella società inglese, e alla prima difficoltà di un padre single come il suo l’Inghilterra si è dimostrata essere «quel tipo di madre per cui prima o poi arrivano gli assistenti sociali».
La donna non solo è stata emarginata a scuola e costretta a dimenticare la lingua e la tradizione giamaicana, ma ha vissuto vessazioni sulla sua pelle anche a lavoro, in particolare nella casa di riposo dove lavorò come operatrice, e soprattutto a casa, dove la sua voglia di cantare con la musica ad alto volume non è ben visto dai bianchi, che la denunciano alla polizia. Più avanti nel romanzo Gloria affermerà che «sono anni ormai che vivo in questo Paese ma le violenze che devo subire mi fanno ancora male».
Decifrare le voci dell’emarginazione
La reclusione in un ospedale psichiatrico è vista da Gloria, pertanto, come l’ennesima ingiustizia e la dimostrazione che l’Inghilterra è incapace di integrare gente come lei. Qui entra in gioco la scrittura, che non serve solo a Gloria, ma anche a Merle. Quest’ultima riesce proprio attraverso la scrittura a liberare la propria identità dai suoi traumi. Il processo di emancipazione della propria identità attraverso la scrittura risulta per lei, però, fin da subito difficile:
Sono una pagina vuota. Bianca. Perché non esiste la carta nera? Le pagine a righe del quaderno frusciano quando le sfoglio. Le parole mi saltano in testa ma non vogliono saperne di atterrare sulla pagina. Vorrei scrivere, ma ci sono troppe cose che non devo dire.
Per Merle risulta difficile scrivere: sono tante le cose che non riesce a confessare a se stessa e che dunque deve nascondere. Confessare al mondo il proprio dolore è qualcosa che la soffoca, e questa incapacità la porta addirittura a non dire il proprio nome, in quanto «se qualcosa ha un nome, allora è reale. Se non hai un nome, sei invisibile». Merle vive una situazione paradossale: vuole che il suo dolore venga riconosciuto, ma allo stesso tempo non vuole essere invisibile.
La questione si complica nel momento in cui prova paura nel riconoscere il proprio dolore, perché farlo significherebbe soccombere. La donna riesce a uscire da questo paradosso nel momento in cui Gloria urlerà il suo nome, un gesto che indica la comunione del proprio dolore, e di conseguenza la salvezza:
E intanto Gloria mi abbraccia, mi culla, mi dice che andrà tutto bene. È la mia Orisha, l’angelo africano della luce. Sono io ad aver scelto lei o è lei ad aver scelto me? Cammina con me, mi guida con fermezza fuori dal buio.
La salvezza attraverso l’universalità
La scrittura da sola non basta a salvare né Gloria né Merle. Ciò che serve è anche la predisposizione ad ascoltare e a percepire le due protagoniste come pure anime, scevre dalle categorie di donna, nera e malata di mente. Già Goria, infatti, nella prima parte del libro invita i lettori a prestare attenzione a ciò che le due donne vivono e hanno vissuto: «Mi dite che ho problemi a scrivere in modo chiaro e che invece dovrei parlare ma forse siete voi che leggete che dovreste fare più attenzione, non io che scrivo».
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Sia Gloria che Merle comprendono che non è facile dare ordine al proprio caos, anzi, è proprio quest’ultimo ciò che le rende uniche. Scrivere in maniera chiara e comprensibile per gli altri altro non è che l’ennesimo modo che ha la società di controllarle, mentre il disordine della propria scrittura è ciò che le rende libere e felici, che le permette di andare avanti nonostante sappiano bene che è difficile per loro avere un futuro:
Ecco perché mi piace essere felice. Mi sembra che felice sia un’emozione utile. Allora perché ci tenete così tanto a mandare via la felicità a calci? Perché ci tenete così tanto a farmi diventare piatta come tutti quanti voi? Mi sembra che ogni cosa che voglio io è sbagliata e ogni cosa che volete voi è giusta. Direi che non va proprio benissimo.
Gloria e Merle chiedono salvezza nel senso che chiedono di essere riconosciute nei loro sbagli, ma soprattutto nel loro essere umane: non nere, non malate di mente, non donne, ma umane. Le due protagoniste ci chiedono di ascoltarle e basta, di accettare la loro diversità e di amarle nel loro caos.
Non è finita finché la signora grassa non canta
Come recita il detto inglese che dà il titolo originale al romanzo di Roy, non è finita finché la signora grassa non canta. Canta ancora, ragazza (acquista) continuerà a cantare finché Gloria e Merle non saranno salve veramente, perché è questo che fa la buona letteratura: raccontare finché chi non si sente amato non trova l’amore e la comprensione che merita, e finché gli altri non impareranno ad ascoltarli.
Io so solo che sono stufa di badare alle cose. Stufa marcia, ecco la verità. Tutta l’energia che ho finisce sempre nelle cose sbagliate. E a me non me ne rimane per niente. Certi giorni non riesco nemmeno a prendermi cura di me stessa, figuriamoci di qualcun altro. Dovrebbero capirlo. Ma lei se ne sta lì sul letto, immobile e tristissima, e so che dovrei rimanere con lei, tenerla d’occhio e farle compagnia, perché essere soli in questo mondo cattivo ti divora le ossa.
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