I tram, i caffè all’aperto, gli antichi mestieri, i negozi, la vita che brilla sul corso, davanti alle belle terrazze. La Milano di Carlo Castellaneta è un caleidoscopio elegante, un complesso di trame in cui storia e ricordi si fondono, stabilendo corrispondenze che fotografano il luogo, il suo spirito, l’istinto materno e paterno insieme. Da città che accoglie e fa crescere grazie agli strappi necessari, a un percorso di acclimatamento che è perenne sfida.
È questo amore per il territorio, per uno spazio identitario come “campo emozionale” che fa di Castellaneta «lo scrittore dei Navigli», ed è un peccato aver rimosso il suo nome, trovarlo sulle copertine ingiallite di vecchi volumi Euroclub, alcuni meritoriamente ristampati (da Interlinea tra il 2018 e il 2019) e altri persi nell’ipertrofia novecentesca, spesso “ordinata” da una critica che nei confronti dei giornalisti-scrittori nutriva una diffidenza snobistica.
Milano città madre
Eppure la sua prolifica attività (quasi un titolo l’anno a partire dai primi Settanta) ha coinciso con l’equilibrio – oggi rarissimo – tra tesoro tematico e partitura stilistica, laddove i motivi dominanti (la vita, l’amore, la politica, come testimonia la partizione di Tante storie, raccolta di racconti del 1973) procedono in parallelo all’arguzia espressiva, alla prosa sapientemente orchestrata. Nell’organizzazione sintattica, nel lessico improntato a un’esattezza nominativa che non è mai vacuo compiacimento, la scrittura di Castellaneta disegna arabeschi variabili, di volta in volta adattati alla realtà rappresentata e fissata di sbieco, con partecipazione viva – eppure dosata – ai “misteri” della sua terra.
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Una Milano avvolgente, che costringe sempre a tornare come rivela lo scoperto autobiografismo di Viaggio col padre, pubblicato nel 1958 su spinta di Elio Vittorini e dove la città fa da contrappunto emotivo a Foggia, luogo d’origine dello scrittore che, lungo la strada, acquista consapevolezza della sua estraneità, in un dialogo impossibile tra mondi altri. Il capoluogo meneghino, con le sue mille facce e le tante trasformazioni, diviene metafora di una società accelerata, in cui il miracolo economico mal si innesta sul tronco della società contadina e che del passato conserva tracce consistenti. Come nei giorni di fine Ottocento narrati in Villa di delizia (1965), con le cannonate del generale Bava Beccaris in sottofondo. O ancora in Notti e nebbie (1975), in cui la fine del fascismo evoca già lo spettro di un “ritorno all’ordine naturale”, quello del tempo della stesura, quando scoppiavano le bombe e falde sotterranee delle forze armate non accettavano, per dirla con Silvio Lanaro, «i socialisti al governo e i comunisti al 25% dei voti»:
Siamo stati travolti, eppure qualcosa mi dice che non è finita, che la nostra idea, la nostra natura continuerà a sopravvivere. Perché i vincitori, i nuovi padroni presto avranno bisogno di me. Finché l’uomo sarà fatto della stessa merda. Conto su di voi.
Tra quotidianità ed eventi storici
Tutto, nell’opera di Castellaneta, ha il sapore vischioso della Storia, dell’intreccio tra quotidianità e accadimenti tragici sovente scrutati da un osservatorio femminile, con protagoniste come Lisetta de La Paloma, moglie dell’anarchico Pietro ben esemplato su Giuseppe Pinelli. E poi Marina, la donna al centro di Ombre (1982), che abbandona marito e figlio per entrare nella lotta armata, a mostrare le lucide e contorte motivazioni di chi ha affidato al massacro la propria idea di rivoluzione.
I sentimenti, altro fuoco del suo narrare, si insinuano nelle pieghe degli eventi, e dal rapporto di coppia guardano all’universale, come a cercare un fondo comune, uno scorrere del quotidiano oltre la storia, dove la vita si consuma tra dolore pubblico e dolcezze private, tra tormenti intimi e illusioni di gloria. Così in Anni beati (1979), referto del “boom” e della capitale “morale”, o Rapporti confidenziali (1989), raccolta di ventiquattro racconti divisi tra famiglia e coppia, sullo sfondo – sempre – dei propri tempi. Nel risvolto di copertina Carlo Bo fa dire all’autore: «La vita va per conto suo, io non posso fare altro che seguirla tutte le volte che mi chiama o m’illumina». Naturale per un «fabbricante di trame plausibili», che – sono parole sue – si pone «nel solco di una tradizione certamente più anglosassone che italiana, dove la perizia artigianale conta più delle sublimi allusioni».
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Tratto chiaro e che bene presenta, pur nella sua brevità, uno scrittore di cui ho letto pressoché tutto quanto ha pubblicato. Troppo in ombra a mio giudizio. La mia debole vista non mi consente di rileggerlo su carta e spero che prima o poi io possa rileggermelo in ebook. “Notti e nebbie” non mi basta.