Parafrasando William Shakespeare, il mondo è un teatro e tutti noi siamo attori della nostra vita. Quante volte ci si è trovati in situazioni in cui si è chiamati a interpretare certi ruoli nella quotidianità che ci imbrigliano senza darci via d’uscita? In cui si arriva alla fine a «una seconda infanzia, puro oblio, senza denti, senza vista, senza gusto e senza niente», senza la possibilità di dare una svolta alle nostre vite?
Devono sentirsi in questa situazione pure le sei donne protagoniste di La casa delle orfane bianche, romanzo d’esordio di Fiammetta Palpati e nuovo titolo della collana «fremen» curata da Giulio Mozzi per i tipi di Laurana Editore. Fresco vincitore del Premio POP 2024 in ex aequo assieme a Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo di Giorgio Benedetto Scalia e del Premio Campiello Opera Prima, il romanzo di Palpati figura fra le proposte avanzate per il Premio Strega 2024. A proporlo è stato Gioacchino De Chirico, che lo ha definito «una danza collettiva, una sarabanda dolorosa, ma necessaria e perciò benefica».
La trama di «La casa delle orfane bianche»
In questa sarabanda tragicomica e dolorosa, le protagoniste sono tre donne di mezza età, Natàlia, Lucia e Germana, che decidono durante la Settimana Santa di Pasqua di prendersi cura delle proprie rispettive madri, Pina, Felicita e Adele, decidendo di coabitare nella stessa casa. Quello, però, che inizialmente doveva essere «un nido», ben presto diventa per le protagoniste «un covo» in cui convivere diventerà sempre più difficile.
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A complicare le cose sarà l’arrivo di suor Modestina, in realtà una senza fissa dimora in cerca di cure, una specie di Vladimiro o Estragone che gioca a fare Godot dando alle tre donne false speranze di risoluzione, ma al contempo portandole ben presto a intraprendere un cammino di crescita e autoconsapevolezza necessario per venire a patti col rapporto con le proprie madri.
«La casa delle orfane bianche»: un romanzo teatrale
Il lettore ben accorto avrà capito come La casa delle orfane bianche non sia, strutturalmente parlando, un romanzo vero e proprio, bensì un ibrido fra romanzo e teatro. Il testo, infatti, presenta all’inizio l’elenco dei personaggi nell’ordine in cui compaiono sulla scena, e invece di essere diviso in capitoli è diviso in atti separati da un intervallo. Quest’ultimi sono due, rinforzando ancora di più il parallelismo fatto prima con Samuel Beckett e Aspettando Godot, dove fra i due la differenza sta nell’arrivo di suor Modestina, il cui arrivo cambia le cose per non cambiarle affatto, in quanto elemento di disturbo che acuisce la situazione di conflitto familiare presentataci nel primo atto.
A rendere più interessante le cose è l’intervento di un narratore esterno, che introduce la storia dando delle precise indicazioni spazio-temporali – Amelia (attuale paese di residenza di Palpati), al giorno d’oggi – e mettendoci in guardia sulla presunta verità di quello che si legge:
Diremo, anzi, che proprio dove il lettore si troverà più a suo agio nel riconoscere fatti e situazioni, sarà bene che dubiti, e dove durerà più fatica a credere, potrà ragionevolmente sospettare di trovarsi di fronte alla verità.
La presenza di un narratore extradiegetico e la struttura teatrale contribuiscono, dunque, ad aumentare la distanza fra il lettore e la vicenda delle orfane bianche: il primo, infatti, sarà sempre portato a mettere in discussione la veridicità di quello che legge e vede nel momento della lettura, e le situazioni paradossali che gli si porranno davanti mettono in moto un sentimento del contrario pirandelliano che lo indurranno a credere che nel loro carattere paradossale queste vicende sono più vere di quello che sembrano.
Donne che tornano bambine in un nido che diventa covo
Per raccontare le dinamiche delle orfane bianche, ci si soffermerà un attimo sugli spazi, in particolare su quella casa che risulta essere «una discutibile concessione al gusto nordeuropeo per lo shabby chic – l’intenzionalmente scrostato – che a nostro avviso manifesta l’ambizione (del tutto legittima, s’intende) di guardare oltre le dolci colline umbre». Da esperta di paesaggio e letteratura, Palpati è molto attenta alle descrizioni dei luoghi, che rispecchiano o anticipano la natura delle vicende:
Il risultato, nell’insieme, rispecchia un qualcosa di non propriamente antico, quanto di passato in transito. Verso cosa? Non sapremmo. Si avverte una sospensione che può essere scambiata per incompiutezza. Ma oggi occorre un occhio attento e malevolo per accorgersene, tanto l’atmosfera è piena di attese e promesse di un nuovo nido.
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La presenza di crepe, infatti, ma anche successivamente del glicine – di cui Palpati abilmente ci ricorda lo slittamento semantico da “Wistaria” all’inglese “wisteria”, la cui assonanza allude all’isteria – lascia presagire un incrinarsi dei rapporti fra le sei donne, che avverrà nel momento in cui le figlie iniziano a prendersi cura delle madri delle altre arrivando a «ingarbugliare i bisogni» e a «finire per chiedere» invece che offrire aiuto. L’esigenze delle madri diventano sempre maggiori ed esasperanti, e le tre figlie iniziano a confrontarsi con un passato fatto di tragedie sepolte nella loro coscienza, fra cui il suicidio di un figlio.
L’idea strampalata di capire il passato e cambiare il futuro
Nel secondo atto, allora, si pone la necessità per le tre figlie di cercare di stabilizzare la loro situazione: mettere a bada il passato per cercare di avere un futuro sereno. Se, però, «avevano invocato un aiuto – una mano santa, fatata», si ritrovano davanti «una barbona», suor Modestina, una suora che nel periodo di Pasqua dovrebbe pregare per loro nella speranza che la loro situazione si risolva, ma che invece risulta essere un altro corpo ingombrante e da sfamare.
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La suora, però, o presunta tale complica ancora di più le cose ponendo alle tre protagoniste la seguente domanda: siete madri o siete figlie? Maliziosamente la sedicente suora chiede loro se sono le madri delle loro madri oppure se sono veramente le figlie, ovvero coloro che un punto di riferimento e una consolazione ce l’hanno. La suora, però, dice loro che in realtà sono vere e proprie orfane senza un’ancora di salvezza del proprio dolore:
Benedette figliole. Benedette fanciulle con le lenti da vicino e le vene varicose, possibile che non capiate? Le orfane bianche siete voi. Voi siete davvero orfane bianche.
La suora porta le protagoniste a confessare la propria verità, rimossa per evitare l’inquietudine del dolore, ma che in realtà le ha condannate a un eterno presente senza uscita. L’aborto, il suicidio di un figlio e un adulterio sono le verità inconfessabili che ora suor Modestina fa riemergere per portare le tre figlie a venire a patti definitivamente con le loro madri.
Eroine di una tragedia pasquale
Esse diventano, allora, «eroine di una tragedia» che «devono perdonare il loro aguzzino. Tenerlo in vita». Non è un caso che tutto questo si svolga durante la settimana di Pasqua, momento del passaggio verso una nuova vita, in cui le figlie si sacrificano per salvare le loro madri, perdonare i loro errori, ma al contempo perdonando se stesse e dando vita a un nuovo inizio in cui è veramente possibile voltare pagina.
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Le tre figlie iniziano questo cammino sgomberando la casa dei rifiuti – fra cui l’ingombrante damigiana –, prendendosi cura della suora imbrogliona e cercando di aprirsi ai residenti del paese e alle persone del proprio passato. Le tre protagoniste condividono, così, il proprio dolore e il proprio vissuto, e raccontandolo lo esorcizzano garantendo, così, salvezza a se stesse e alle loro madri.
«La casa delle orfane bianche»: il perdono è nell’incontro
Facendo il verso a una grande tradizione di romanzi familiari e di teatro di costume e di denuncia sociale come L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde, La casa di Bernarda Alba di Federico Garcìa Lorca o Le cure domestiche di Marilynn Robinson, La casa delle orfane bianche di Fiammetta Palpati (acquista) propone una storia metanarrativa e dalla struttura inusuale che ci rivela la difficoltà delle relazioni umane e come la risoluzione dei conflitti spesso non venga da un intervento esterno, ma dalla volontà del singolo, che prova a mettere da parte i vecchi rancori del passato per voltare pagina e perdonare se stesso e gli altri.
Il perdono è nell’incontro.
Uno fa un passo: chiede perdono. L’altro fa un passo: dà il perdono. Un dono più grande.
Il perdono è nell’incontro – nel passo in avanti, e non solo nel gettarsi in ginocchio. Ma anche chi perdona fa un passo verso l’altro, e si getta in ginocchio. Chi chiede perdono e chi dà il perdono sono sullo stesso piano, possono allungare una mano e si toccheranno. Usano i medesimi gesti. Conoscono gli stessi nomi. Essi chiamano male il male, e bene il bene. E tutto questo, coscienza.
Anche il male è una relazione, come il bene; e nella relazione che lo riconosce, lo nomina, lo ricorda, può esserci la sua cancellazione. Chiedere perdono è, dunque, volersi incontrare per riconoscere il male – riconoscimento, non pentimento.
Ma questo male qui, senza colpa, chi lo riconosce?
Chi se lo prende sulle spalle?
Chi gli dà il nome?
Si può dimenticare ciò che non ha un nome?
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