La scrittrice sarda Grazia Deledda nacque a Nuoro il 27 settembre 1871. Ne ricorre oggi l’anniversario della nascita, anche se su questa data, in realtà, vi sono notevoli dubbi. Infatti, pare che l’autrice sia stata registrata dal padre all’anagrafe il 28 settembre, giorno successivo alla sua nascita, avvenuta invece il 27.
Troviamo diverse pubblicazioni che riportano questa data, mentre ad esempio su alcune pagine web leggiamo 28. Capire quando “festeggiare” questa autrice non è che il primo dei grandi problemi che riguardano il ricordo della sua carriera letteraria, spesso sottovalutata. Malgrado Grazia Deledda vinse il Premio Nobel nel 1926, spesso non è riconosciuta al pari di altri premi Nobel, come Luigi Pirandello. Sono un esempio i programmi scolastici, nei quali spesso viene molto trascurata.
A lei si preferiscono altri autori veristi come Giovanni Verga, nonostante siano notevolmente differenti. Eppure, Deledda fu la seconda donna, dopo la svedese Selma Lagerlöf, a ricevere il riconoscimento, e anche la prima italiana. Negli ultimi tempi, però, si sta muovendo qualcosa: il suo romanzo Cenere, ad esempio, è stato ripubblicato ad aprile 2021 in una nuova edizione con prefazione di Michela Murgia, edita dalla Utopia Editore.
«Cenere»: un fortunato romanzo minore
Cenere vide la luce per la prima volta nel 1903, pubblicato a puntate nel periodico «Nuova Antologia». Il pubblico lo conobbe come volume unico solamente un anno dopo, quando fu edito a Roma. Seppure questo romanzo sia minore rispetto ad altri, fu comunque apprezzato dal grande pubblico, anche grazie al film che ne fu tratto. Interprete protagonista era Eleonora Duse, attrice che molti ricordano per la sua storia d’amore con Gabriele D’Annunzio.
La vicenda è tipica della produzione dell’autrice: una forte sventura accompagna il destino del protagonista. L’ambientazione, anche questa volta, non fa da sfondo, ma da focus principale. Una società, quella sarda e in particolar modo quella di Nuoro, dove Deledda nacque, di cui diversi personaggi sono vittima, come la protagonista di Cenere, Olì.
Questo personaggio femminile incarna allo stesso tempo l’idea di peccato e di colpa, in quanto si innamora di un uomo sposato e ne rimane incinta. La società misogina è la chiave di tutta la vicenda. Questa colpa si trasferisce infatti su suo figlio Anania, vero protagonista che la donna è costretta ad abbandonare per concedergli di vivere una vita al sicuro da quel “peccato originale”. Il giovane, malgrado venga abbandonato e viva una vita felice con una matrigna benevola, continuerà tuttavia sempre ad essere tormentato dal desiderio di ritrovare la madre. In questa continua lontananza, si disgrega la terribile vicenda di un ragazzo, e poi di un uomo, che cerca di fare i conti con le proprie origini, il passato e il presente. Il ritrovo della madre sarà, per lui, così toccante e sconvolgente da fargli mettere in dubbio ogni sua certezza.
Il Verismo di Grazia Deledda: la Sardegna universo antropologico
Sul piano del linguaggio, il racconto risulta molto complesso e incredibilmente realistico, mostrando l’appartenenza di Deledda alla corrente del Verismo. Non a caso, Borgese la definì «degna scolara di Giovanni Verga». La difficoltà del romanzo probabilmente risiede in questa crudezza e in uno stile volutamente freddo nelle descrizioni. Tuttavia, a ciò si contrappone una narrazione fortemente introspettiva dei personaggi e del loro punto di vista, in particolar modo quello di Anania.
Il tratto narrativo più caratterizzante è proprio la resa del luogo, principale discrimine tra Deledda e altri veristi come Verga o Capuana. È sempre, infatti, l’isola della Sardegna il centro di tutte le storie. Esempio fondamentale è il suo romanzo autobiografico Cosima, che esce nel 1937, un anno dopo la sua morte. Mostra proprio le sue origini sarde raccontando di questa ragazzina che vive nell’isola con il sogno di diventare scrittrice.
Cenere è un altro dei libri in cui avviene una rappresentazione della Sardegna di Deledda: un universo a parte in cui i tormenti e le disavventure degli uomini si eternano in un ciclico e intenso dolore. Come osservato da Dino Manca nell’introduzione a L’edera:
L’isola è intesa come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico in cui si consuma l’eterno dramma dell’esistere.
In questo contesto, nel caso di Cenere, Anania sembra per primo voler combattere contro questo eterno dramma, fallendo continuamente.
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«Cenere», una tragedia moderna
Anania è un eroe tragico che deve fare i conti con il destino già scritto della madre, condannata dalla sua “colpa” alla miseria. Come nei protagonisti delle tragedie greche, anche qui ritroviamo la Τύχη (Tyche): la Dea fortuna, una sorte impossibile da cambiare che sembra gestire la vita degli uomini. Il paradosso e la tragicità della vita accolgono Anania in una morsa terribile e troppo stretta. Impossible per lui fare come direbbe Nietzsche, che affermò che nell’accettazione del nostro ineluttabile destino consiste la felicità. Anania non riesce infatti ad accettare in nessun modo nel corso della sua vicenda l’idea dell’abbandono e della lontananza dalla madre.
In questo terribile paradosso e tormento interiore consiste tutto il romanzo, che prosegue spesso con lentezza fino al finale terribilmente intenso e anch’esso tragico, nel quale si rivela il significato del titolo. Il figlio è destinato, come un eroe tragico, a vagare alla ricerca di qualcosa per poi vedere compiere l’ineluttabilità della sua sorte. È condannato a cercare quella madre che lo ha abbandonato, a trovarla, ma a perderla senza poterla afferrare. Ella è, infatti, come cenere.
Anania palpò a lungo, con tutte e due le mani, quella cenere nera che forse era l’avanzo di qualche ricordo d’amore di sua madre; quella cenere che aveva posato lungamente sul suo petto, sentendone i palpiti più profondi. E in quell’ora memoranda della sua vita, della quale capiva di non sentire ancora tutta la solenne significazione, quel mucchiettino di cenere gli parve un simbolo del destino. Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, l’uomo; il destino stesso che la produceva.
Imparare ad amare la vita
Deledda sembra dipingere in questo romanzo un quadro tragico, drammatico, pessimistico. Tuttavia, non è propriamente così. Il percorso del protagonista è lento: passa per l’innamoramento fino all’idea di sposarsi, con l’incontro della madre che cambia tutto. In questo lungo viaggio contro i propri demoni, alla fine Anania capirà.
Solo alla fine sarà in pace con se stesso, probabilmente accettando la sua difficile condizione, seguendo l’eco di Nietzsche. Abbracciando quel destino e comprendendo finalmente l’amore della madre. A non comprendere, invece, è sempre la società. Rimane nel suo tragico e perenne giudizio, frenando la ricerca della realizzazione delle illusioni degli uomini e delle donne, vittime di un universo rurale ostile.
Michela Murgia, nella prefazione che ha scritto per questa nuova edizione, ha parlato del libro come di una sorta di tesoro ritrovato in mare, una di quelle bottiglie perdute che, se siamo fortunati, ritroveremo. Probabilmente l’importanza di leggere questo romanzo sta proprio in questo: nella consapevolezza del tragico che ci offre, ma che, paradossalmente, ci fa da cura. Poiché, terminata la lettura, anche noi come Anania alla fine del libro, impareremo ad amare la vita.
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Silvia Argento ha perfettamente analizzato questa piccola meraviglia che e’ questo romanzo della famosscrittrice Grazia Deledda che a parer mio non e’ abbastanza conosciuta e studiata.
Grazie mille di dare voglia di scoprire
Altro romanzi sella Deledda.