Innamorati di Cesare Pavese

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Cesare Pavese

«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi»: con queste parole scritte sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò – che tanto ricordano quelle usate nella sua lettera d’addio dal poeta russo Vladimir Majakovskij prima di togliersi la vita – se ne andava Cesare Pavese.

Muore suicida il 27 agosto del 1950, in una camera dell’Hotel Roma in Piazza Carlo Felice a Torino, tormentato da un profondo disagio esistenziale acutizzato dalla delusione amorosa per l’attrice Constance Dowling.

A distanza di settantun anni dalla sua morte, le sue opere sono diventate di pubblico dominio e questo permette di conoscere al meglio il pensiero di uno degli autori più profondi e tormentati della storia della nostra letteratura.

Chi era Cesare Pavese?

Scrittore, poeta, editore, traduttore e critico letterario, Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, paese delle Langhe piemontesi in provincia di Cuneo che costituirà l’universo mitico che farà da cornice alle sue opere.

Nonostante la condizione agiata della sua famiglia, la sua infanzia non è per niente felice. Tre suoi fratelli, nati prima di lui, perdono la vita prematuramente, mentre il padre Eugenio muore di cancro al cervello nel 1914. Cresce, dunque, assieme alla sorella maggiore Maria e alla madre Consolina; il suo carattere autoritario e l’educazione rigida a cui sottopone i figli contribuiscono a rendere più introverso e instabile il carattere dell’autore.

Pavese si forma a Torino, dove frequenta il famoso liceo D’Azeglio e ha come insegnante di lettere Augusto Monti, noto docente antifascista. Finiti gli studi liceali, s’iscrive alla Facoltà di Lettere, dove nel 1930 si laurea con una tesi dal titolo Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman.

Questi sono gli anni in cui incontra Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi. Non si tratta solo di intellettuali antifascisti di spicco, ma anche del cervello collettivo di quella che sarà la casa editrice più grande e importante d’Italia: la Giulio Einaudi Editore, presso la quale Pavese inizierà a lavorare stabilmente come redattore dall’1 maggio 1938.

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Gli anni del fascismo sono anni molto turbolenti per l’autore piemontese: nel 1935 viene mandato al confino a Brancaleone Calabro, dal quale tornerà a Torino nel 1936, mentre durante la guerra muoiono Leone Ginzburg e Giaime Pintor, verso i quali Pavese nutriva un profondo rispetto. Sempre in questi anni, inizia la sua attività di traduttore (da ricordare le traduzioni, ad esempio, di Moby Dick, Ritratto dell’artista da giovane e Uomini e topi) e di scrittore.

Nel 1936 pubblica per le Edizioni di Solaria la sua prima fatica letteraria, ovvero le poesie di Lavorare stanca. Il più grande successo di Pavese giunge con la vittoria del Premio Strega nel 1950 con il trittico composto da La bella estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole. Tuttavia, lo stato d’animo dell’autore nel corso degli anni peggiora sempre più, degenerando fino al suicidio nell’agosto dello stesso anno.

Quella di Cesare Pavese è stata una vita molto tormentata, rispecchiata perfettamente nella sua opera, volta alla ricerca di un equilibrio tra razionalità e irrazionalità, il mutamento della Storia e l’immobilità e l’eternità del mito, la tensione alla vita e l’accettazione del destino di morte incombente. Per comprendere al meglio il pensiero di Pavese, abbiamo selezionato tre opere che meglio spiegano il suo concetto di mito e il suo percorso verso una salvezza che mai arriverà.

Per iniziare: «Dialoghi con Leucò» (1947)

Tristemente noto per essere il libro su cui Cesare Pavese scrisse le sue ultime parole prima di togliersi la vita, Dialoghi con Leucò, il cui titolo è un omaggio a Bianca Garufi, uno dei grandi, tormentati amori dello scrittore (Leucò è la traduzione greca di Bianca), costituiscono il punto di partenza ideale per comprendere la poetica del mito dell’autore di Santo Stefano Belbo.

Si tratta di ventisei dialoghi brevi, molto intensi, che vedono protagonisti personaggi del mito come Edipo, Tiresia, Odisseo, Chirone, Eros, Tànatos e Circe. Questi testi offrono una visione nuova del mito, più esistenzialista. Trattano temi come l’amore, il ricordo, il dolore, ma anche l’ineluttabilità della morte e la sua accettazione, che accomuna uomini e dèi, quest’ultimi mossi dalla stessa angoscia dei primi, poiché destinati anch’essi a sparire sostituiti da nuovi idoli.

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Il dialogo che più colpisce per la sua lucidità di pensiero è L’isola, che vede protagonisti Odisseo (meglio noto come Ulisse) e Calipso. Questo dialogo racchiude bene il senso del mito per Cesare Pavese, ovvero l’accettazione del proprio destino e della fine. «Immortale», dice Calipso a Odisseo, «è chi accetta l’istante. Chi non conosce più un domani», poiché «il passato non torna. Nulla regge all’andare del tempo».

Nei Dialoghi con Leucò (acquista), scritti con grande drammaticità, Cesare Pavese pone le basi per la costruzione del suo mito, ma anche di un cammino che lo porterà inesorabilmente verso la fine: una ricerca incessante come Odisseo di una ragione per vivere, ma con la consapevolezza che il destino di morte incombe su di noi.

Calipso: Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo…
Odisseo: Non sono immortale.
Calipso: Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Che cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
Odisseo: Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
Calipso: Dimmi.
Odisseo: Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.

Per proseguire: «La bella estate» (1949)

Pubblicato nel 1949 in volume unico assieme a Tra donne sole e Il diavolo sulle colline – volume con cui Cesare Pavese vinse nel 1950 il Premio Strega –, La bella estate, che può essere letto autonomamente rispetto agli altri due, è un romanzo breve, che nonostante il titolo, racconta una storia di disillusione.

Il libro narra di Ginia, giovane sedicenne e sarta di un atelier torinese, che vive assieme al fratello Severino, operaio del gas, senza i suoi genitori. Come tutti gli adolescenti, la protagonista vuole amare e fare esperienza dell’età adulta. L’occasione si presenta grazie alla figura di Amelia, modella di nudo artistico che la inizia all’ambiente bohémien degli artisti torinesi. Il percorso di Ginia verso «la bella estate» sarà, però, costellato da un brusco passaggio dalla fanciullezza – ben evidenziata da termini usati per descrivere la giovane come “bambina”, “scema” e “stupida” all’età adulta pieno di false speranze.

Cesare Pavese definisce quella de La bella estate la «storia di una verginità che si difende». Ginia, però, nel contesto di una Torino grigia, monotona e fredda, va incontro alla perdita dell’innocenza. Un passaggio obbligato nella “mitologia” pavesiana, secondo la quale i personaggi devono sottomettersi al dovere morale di accettare l’idea della morte.

La bella estate (acquista) costituisce un capitolo di quel «clima morale» creato dall’autore per rappresentare il cammino iniziatico che dall’adolescenza ci conduce all’età adulta, un percorso dove non si va incontro alla salvezza, ma a un’amara accettazione dell’ineluttabilità della fine della nostra innocenza e, dunque, della morte.

Quando fu sola nella neve le parve d’esser ancora nuda. Tutte le strade erano vuote, e non sapeva dove andare. […] Si divertiva a pensare che l’estate che aveva sperato, non sarebbe venuta mai più, perché adesso era sola e non avrebbe mai più parlato a nessuno ma lavorato tutto il giorno, e così la signora Bice sarebbe stata contenta.

Innamorati di Cesare Pavese: «La luna e i falò» (1950)

La luna e i falò costituisce il testamento spirituale dell’autore di Santo Stefano Balbo, poiché è l’ultimo romanzo pubblicato prima del suo suicidio. Questo libro costituisce l’ultima tappa del percorso di Cesare Pavese verso la consapevolezza dell’ineluttabilità della morte che tanto ha interessato la sua vita.

Ambientato alla fine della Liberazione nelle Langhe piemontesi, il romanzo si incentra su Anguilla, trovatello senza nome che torna dall’America intraprendendo un viaggio alla ricerca delle sue radici e dei luoghi del cuore. Questo viaggio, compiuto assieme all’amico di sempre Nuto – in cui si può riconoscere l’amico d’infanzia dell’autore Giuseppe Scaglione –, svelerà al protagonista una realtà totalmente cambiata rispetto al tempo della sua gioventù, e sarà pieno di delusioni e tragedie.

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Cesare Pavese dedica il romanzo all’ultimo amore tormentato della sua vita, l’attrice americana Constance Dowling. Alla donna dedica l’epigrafe shakespeariana tratta dal Re Lear «Ripeness is all», ovvero «la maturità è tutto». Il ritorno di Anguilla – sia quello fisico nelle Langhe che quello ai ricordi dell’infanzia e della gioventù -, infatti, è il vero viaggio della maturità, quello in cui realizza l’impossibilità di un posto nel mondo, di una famiglia e di un amore. Ovunque vada, il protagonista si sente disorientato, al punto che, guardando il cielo americano, comprende che «[…] quelle stelle non erano le mie […] Valeva la pena essere venuto? Dove potevo ancora andare? Buttarmi dal molo?».

La luna e i falò (acquista) non solo è il romanzo di Anguilla, Nuto, Cito, il Valino, Santina o Rosanne, ma è anche il romanzo della vita di Cesare Pavese: di una morte annunciata, di una persona vittima di un destino più grande di lui, di chi non trova più un posto nel mondo e la realizzazione di un’idea di amore e famiglia. Nei falò contadini del romanzo non c’è più la tenerezza del passato, ma la consapevolezza di un’innocenza perduta e di un ineluttabile fallimento.

Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna – dormivo all’Angelo e discorrevo con il Cavaliere -, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più. Da un pezzo non c’erano più. Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato. Nuto, l’unico che restava, era cambiato, era un uomo come me. Per dire tutto in una volta, ero un uomo anch’io, ero un altro – se anche avessi ritrovato la Mora come l’avevo conosciuta il primo inverno, e poi l’estate, e poi di nuovo estate e inverno, giorno e notte, per tutti quegli anni, magari non avrei saputo che farmene. Venivo da troppo lontano – non ero più di quella casa, non ero più come Cinto, il mondo mi aveva cambiato.

In copertina:
Artwork by Madalina Antal
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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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