È forse il più importante e discusso premio letterario italiano: stiamo parlando del Premio Strega, a cui anche noi di Frammenti Rivista dedichiamo un’attenzione speciale. Ogni edizione fa sempre parlare di sé, in particolare quando si tifa per un libro che poi non vince, o addirittura nemmeno arriva in cinquina. Abbiamo quindi selezionato cinque candidati illustri delle edizioni passate, che non hanno vinto l’ambito premio ma noi avremmo voluto veder trionfare. C’è anche il vostro preferito?
«Il visconte dimezzato» di Italo Calvino (1952)
Italo Calvino non ha mai vinto il Premio Strega, nonostante abbia raggiunto la cinquina per ben tre volte: nel 1952 con Il visconte dimezzato (acquista), nel 1960 con Il cavaliere inesistente e nel 1966 con Le cosmicomiche. In particolare, nel 1952 il Premio fu assegnato a I racconti di Alberto Moravia. Il visconte dimezzato inaugura la trilogia de I nostri antenati, opera destinata poi a figurare in molte antologie scolastiche diventando così oggetto di studio sia per studenti sia per esperti in materia. La struttura della trama assume delle connotazioni fantastiche al fine di spiegare ed illustrare in maniera del tutto originale alcune questioni filosofiche e morali, quali l’eterna battaglia tra il bene e il male e la dualità dell’essere umano.
Medardo è l’impavido visconte di Terralba che si reca in Boemia per combattere la grandiosa guerra contro i Turchi. Però, ben presto, viene colpito da una palla di cannone che lo divide letteralmente in due. Sul campo di battaglia si trova solamente la parte destra e miracolosamente i medici riescono a salvare la vita del visconte, ormai dimezzato. Al suo ritorno a Terralba, tuttavia, la popolazione tutta si accorge dell’insita malignità del loro padrone. Che sia tornata nella terra natia la sola parte cattiva del visconte? E se sì, la parte sinistra – cioè quella buona – si è salvata? Una storia senza tempo che attinge ai grandi classici, senza sacrificare l’innovazione e il gusto per la sperimentazione letteraria. Sicuramente uno dei progetti più felici e meglio riusciti della narrativa italiana del Novecento.
Lorenzo Gafforini
«Un amore fraterno» di Carla Cerati (1972)
Asciutto e folgorante esordio di Carla Cerati, Un amore fraterno si muove sul filo dei ricordi, ne tematizza il valore filtrante, episodico: tra salvezza e inganno. La devastante realtà della morte irrompe fra queste pagine con crudezza, “vivifica” i flussi dell’elaborazione, in uno stato di armonia e straniamento, bellezza e lacerazione. Il fratello dell’autrice, morto anzitempo per una malattia insidiosa, trascinatasi negli anni, diviene – in quest’atmosfera di sospensione, vagamente proustiana – allegoria di un’assenza, il vuoto di una vita spenta, sfuggita, segnata da incomprensioni e strappi.
La prosa ferma, quasi nuda di Cerati fotografa un rapporto umanissimo, in cui la superficie della realtà è incrinata da crepe, dove il candore dell’infanzia risulta ovattato e sbiadito, via via interrotto da salti, cambi di tono che riorganizzano il silenzio. È proprio il brusio quotidiano, con le sfilacciature del vivere familiare, a fare del romanzo di Cerati un “marchingegno” perfetto, in equilibrio tra contenuto e forma, partitura espressiva e tesoro materico.
Ginevra Amadio
«Le nozze di Cadmo e Armonia» di Roberto Calasso (1989)
Tra i candidati dello Strega del 1989, poi vinto da Giuseppe Pontiggia con il suo La grande sera, c’è Roberto Calasso, che concorre con Le nozze di Cadmo e Armonia, uscito per la casa editrice della quale Calasso, com’è noto, è il direttore, ovvero Adelphi. Giovanissimo partecipe dell’impresa Adelphi, amico di Bobi Blazen e Luciano Foà, Calasso è anche scrittore raffinato e di grande complessità: la sua è un’opera in volumi, nella quale la narrazione si confonde con il mito, il saggio con la prosa letteraria, facendo saltare qualsiasi tentativo di classificazione o tassinomia.
Anche Le nozze di Cadmo e Armonia (acquista), che di questa serie di volumi costituisce la seconda tappa, rappresenta una vasta circumnavigazione letteraria dell’antica Grecia, che passa attraverso le vicende dei suoi dèi, dei suoi eroi, dei suoi uomini e dei suoi mostri. Il circolo della ricorrenza, dell’elemento che ritorna e si mantiene in sottotraccia, è l’elemento teorico che sorregge il romanzo, sul quale Calasso costruisce una narrazione che si avvicina meravigliosamente alla potenza del mito, nella quale l’identità dei personaggi è una finzione, ed ogni vicenda si disperde e frantuma in mille effetti e variabili. Ciò rende il (non) romanzo di Calasso un libro che, a tutti gli effetti, parla di noi, di quella radice mitica che innerva la nostra cultura e la nostra civiltà, così come recita l’epigrafe di Sallustio che apre il romanzo: «Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre».
Giovanni Fava
«È giusto obbedire alla notte» di Matteo Nucci (2017)
«Perché questa è la Roma che amiamo, vero Pip? La Roma perduta. La Roma sul fiume. Prima che costruissero i bastioni sul Tevere.» Ai margini della capitale, sulle sponde del Tevere, vive un gruppo di uomini e donne: le loro esistenze intrecciate hanno dato vita ad una bizzarra comunità, quasi mitologica e fuori dal tempo, nata un po’ per caso e po’ per necessità. Le rive fangose e verdi di vegetazione offrono rifugio a pescatori di anguille, cuoche sudamericane, lavoratori e uomini in fuga dai fantasmi del passato, le cui storie si mescolano e si incontrano ne «l’Anaconda», una rustica trattoria sorta su una chiatta, punto di ritrovo di tutti i personaggi.
Tra i fuggitivi, c’è anche il protagonista del romanzo, una figura senza nome e senza identità, approdata misteriosamente da chissà dove. È conosciuto da tutti come il Dottore, un titolo ottenuto grazie al suo particolare dono di saper curare con pietà le anime umane. Seppure si distingua per la sua singolare sensibilità, anche lui, come tutti gli altri, è vittima della sofferenza, segnato profondamente da una ferita nascosta. Eppure, come suggerisce anche la citazione omerica che dà titolo al romanzo, «è giusto obbedire alla notte»: il Dottore, infatti, è pronto ad affrontare la sofferenza, per restituirsi, finalmente, alla vita. D’altronde, come professavano gli stessi greci, è dal dolore che derivano conoscenza e crescita: páthei máthos. Matteo Nucci regala ai lettori un viaggio nell’interiorità umana, un racconto intenso, fatto di storie autentiche, di solitudine ed empatia, di distruzione e rinascita.
Costanza Valdina
«Resto qui» di Marco Balzano (2018)
Finalista al Premio Strega 2018, Resto qui di Marco Balzano è ambientato a Curon Venosta, in Alto Adige, paese noto per il campanile che emerge dal lago artificiale di Resia. Il fondale del lago nasconde la storia di una comunità lacerata raccontata da Trina, che rivolge le sue parole alla figlia Marica, sparita con gli zii durante la guerra e mai più tornata a Curon.
Trina racconta di come durante il fascismo ogni cosa nel Sudtirolo fosse stata italianizzata, persino i nomi sulle lapidi, e come il tedesco fosse stato bandito dalla vita di tutti i giorni. La donna non racconta solo una storia di resistenza contro il fascismo, ma anche quella di un mondo, una comunità e una cultura che non ci sono più. Con la costruzione della diga artificiale nel 1950, infatti, il paese di Curon è stato interamente spazzato via e sommerso dalle acque, che hanno lasciato integro soltanto il campanile della chiesa di Santa Caterina, testimonianza di una storia che Trina – e di conseguenza Marco Balzano – racconta per farla vivere nella nostra memoria. Resto qui (acquista) avrebbe meritato di vincere il Premio Strega, poiché attraverso la sofferenza di Trina ci racconta quella di un’intera comunità che ha perso il proprio paese e la propria tradizione. Quella che racconta Balzano è una storia di resistenza civile che rimarca l’importanza di preservare la memoria di ciò che non c’è più e che è stato travolto dall’incedere del tempo.
Alberto Paolo Palumbo
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