Macerie da un futuro già accaduto

«Il cerchio perfetto» di Claudia Petrucci

16 minuti di lettura
Il cerchio perfetto

Se c’è un luogo in cui la letteratura predilige ambientare le sue storie, quello è la casa. Pensiamo a Edgar Allan Poe con La caduta della casa degli Usher, a Shirley Jackson con L’incubo di Hill House: case piene di inquietudini, incubi e fantasmi. Si pensi anche alla casa dei Buddenbrook, o più recentemente alla casa a Venezia dei personaggi di Il decoro, l’ultimo romanzo di David Leavitt. La casa è stata sempre rappresentata come luogo dai confini porosi, dove l’esterno e l’interno comunicano, dove si cerca protezione, ma alla fine si soccombe sempre al cambiamento e ai fantasmi del passato.

Ultimamente, il tema della casa è tornato centrale nel dibattito pubblico a causa, per esempio, della recente emergenza abitativa a Milano per il caro affitti. In tempi in cui avere una casa è ormai difficile, è ancora possibile scriverci un romanzo? Ci ha provato Claudia Petrucci con Il cerchio perfetto (Sellerio, 2023), suo secondo romanzo dopo il successo di L’esercizio (La nave di Teseo, 2020), vincitore del Premio Flaiano Giovani e tradotto, ad esempio, in inglese, francese e tedesco.

La trama di «Il cerchio perfetto»

Il cerchio perfetto si svolge su due piani narrativi distinti: il periodo dal 1985 al 1986 e un futuro ipotetico negli anni Venti del Duemila, in cui Milano è rappresentata nel pieno della crisi climatica, dove si svendono le dimore storiche per farci hotel e dimore di lusso per ricchi e si creano muri per arginare la criminalità.

Nel primo filone narrativo troviamo Dario e Lidia: il primo, un architetto, sta progettando per lei un appartamento «che fuori sembra un quadrato e dentro è un cerchio» in via Saterna a Milano, una sorta di monumento a quello che ben presto diventerà un amore coinvolgente destinato a tramontare subito con Lidia che precipiterà dalla scala dell’abitazione. Nel secondo, invece, quasi quarant’anni dopo, troviamo Irene Sartori, anche lei architetto e impegnata a vendere dimore storiche destinate a diventare dimore di lusso senza valore.

Leggi anche:

A tu per tu con Shirley Jackson

Contattata dall’avvocato Ferrari, curatore fallimentare della famiglia Kowalski, la giovane donna si ritrova a cercare di vendere proprio la casa di via Saterna, in quanto attraverso questa futura vendita l’avvocato vuole estinguere i debiti rimasti dei suoi assistiti e ultimi proprietari dell’immobile. All’interno di essa, però, Irene troverà una ragazza, una studentessa senza casa, Lidia, un’omonima della donna morta in quell’appartamento nel lontano 1986. La misteriosa presenza della ragazza, però, che sembra verificarsi soltanto agli occhi di Irene, lascia intendere che forse è molto di più di un’omonima: forse il fantasma di un passato irrisolto, che costringerà la protagonista a guardare dentro se stessa.

La casa dei tempi weird

Leggendo Il cerchio perfetto e pensando alla Milano distopica rappresentata, viene in mente quanto scritto da Gianluca Didino in Essere senza casa (minimum fax, 2020). Secondo Didino, la casa è espressione di questi nostri tempi weird: è ormai una soglia porosa dove l’interno comunica con l’esterno, l’Altro, presenza perturbante che stravolge le nostre esistenze e ci impedisce una protezione da ogni tipo di minaccia. Siamo, dunque, lontani dall’idea di casa come segno del benessere e della stabilità di una famiglia.

Petrucci sembra aver assimilato questo concetto di casa come soglia. L’autrice, infatti, rielabora il concetto di casa usando una commistione di generi letterari che esprimono queste interferenze weird, ovvero il gotico, il distopico e il thriller. Questo intreccio fra interno ed esterno, normalità e perturbante si riflette anche a livello di struttura, rappresentato da due metà di uno stesso cerchio che, parafrasando il titolo del romanzo, possiamo considerare perfetto: una prima metà è il filone di Lidia, che inizia con la sua morte e finisce con l’inizio del progetto della casa in via Saterna, mentre la seconda è quella del filone di Irene, che inizia con l’arrivo alla casa di via Saterna e raggiunge in maniera lineare il suo epilogo.

Il fantasma di Lidia incontra la quotidianità di Irene in una soglia che è quella di via Saterna, creando un uroboro dove gli errori e i fallimenti del passato irrompono ciclicamente nel presente impedendo la realizzazione di ambizioni future. È in questa soglia che Irene impara a sue spese come sia impossibile disfarsi delle tracce del passato, pronte a diventare «macerie da un futuro già accaduto»: quelle di un’ambizione che distruggono gli altri e che allo stesso tempo ci conducono al fallimento, in quanto incapaci di realizzare l’eternità e di porsi al di sopra del tempo.

Ricerca di un’ideale di perfezione

La casa è, dunque, l’inizio della fine, considerata dall’avvocato Ferrari «un edificio senza nessun valore storico, monumentale, paesaggisticamente mal collocato, costosissimo […] un autentico suicidio immobiliare». L’edificio nasce con l’intento di erigere un monumento a Lidia, la prima proprietaria dell’immobile, a cui Dario dedica tutto se stesso e in cui riversa tutto il suo amore – ma anche le sue velleità di architetto di successo – per garantirle l’eternità:

Lidia ha desiderato potersi guardare costruita. Palladio, o meglio Dio, una deviazione spirituale, e inoltre la casa del piacere di Ledoux, le celle distribuite in tre spirali circolari in un monastero di padri trappisti edificato in Belgio nel 1909, le Torri del silenzio del culto zoroastriano, il panopticon di Bentham; il panopticon, l’occhio che sempre guarda…

Dario, dunque, ha voluto regalare a Lidia l’illusione di essere protetta dal resto del mondo, e allo stesso tempo di poterlo osservare, controllare e sopravvivere eternizzando la sua giovinezza. L’architetto, però, ha sfruttato l’illusione della giovane per poter realizzare le sue ambizioni professionali. In un certo senso, si è voluto mettere al posto di dio, dimostrando di poter manipolare il tempo assurgendo per Lidia a una specie di Pigmalione che cerca di inseguire un’ideale di perfezione creando una sua Galatea, ovvero la casa di via Saterna, manipolando la giovane e distruggendo una famiglia e la sua vita per i propri scopi:

Sapeva che via Saterna avrebbe fruttato un ribaltamento per la sua vita professionale: ora che è successo, Dario capisce di averlo previsto con largo anticipo, una consapevolezza camuffata nelle indecisioni apparenti e nelle angosce fisiologiche della progettazione. Nei giorni successivi alle sue dimissioni, gli sembra di vedere gli anni che arriveranno srotolarsi davanti a lui in un ordine rigoroso, già scritti, l’unico vero fattore determinante e imprevedibile è collocato nel suo passato: il futuro esiste perché è esistito il giorno in cui ha in contrato Lidia, lei sarà per sempre vincolata a questo destino specifico che si avvera, tra tutte le sorti eventuali, questo destino specifico e nessun altro degli innumerevoli possibili, di gloria maggiore, di fortuna minore, di fallimento modesto o rovina spettacolare. Lidia ha generato un solo futuro che lo ha travolto, perciò è tanto più complesso slegarsi, rimuovere, questo è l’impedimento alla razionalizzazione.

Leggi anche:
Mai più sola nella casa. Analisi del topos in «L’altra casa» di Simona Vinci

Ben presto Lidia si renderà conto che quella che è stata creata per lei altro non era che una parvenza di eternità: l’amore che Dario nutriva nei suoi confronti finisce non solo perché quest’ultimo aspetta un figlio dalla moglie Carla, ma anche perché la casa di via Saterna era solo un modo per ottenere il tanto agognato avanzamento di carriera. Tutto ciò a spese della giovane che ritrovandosi senza più nulla è costretta a porre fine alla propria vita per aver creduto di poter raggiungere un amore eterno e una giovinezza altrettanto eterna.

Sbarazzarsi di un eterno passato

Gli anni passano, e se prima le case avevano importanza per le persone che ci abitavano e le storie che racchiudevano, ora sono solo mausolei senza importanza, svenduti al miglior offerente e che, ormai degradate, non hanno più valore. Ciò emerge in particolar modo in quello che il padre dice a Irene in un loro dialogo relativo al suo lavoro di venditrice di dimore storiche:

“Il paese cade a pezzi, non è rimasto niente. Tu vendi al migliore offerente proprietà che non appartengono a individui, ma alla storia, al passato, a un passato che è anche tuo. Le case non sono oggetti, sono state abitate da esseri umani… sono progetti concepiti con idee di grandezza, spesso anche con sentimento… idee di costruzione, di edificazione. E tu prendi queste idee, le vendi a qualcuno e le neghi per sempre a qualcun altro. Dimore storiche che diventano hotel, musei pubblici trasformati in case private, ricchi che si fanno la doccia sotto gli affreschi di Raffaello. È pura follia”.

Irene porta avanti quello che ha sempre fatto Dario con Lidia: distruggere le idee di qualcuno per proprio tornaconto personale, credendo di poter raggiungere la perfezione attraverso il controllo se non addirittura la negazione del passato. È qui, allora, che entra in gioco la studentessa Lidia, uguale nelle fattezze, come scoprirà Irene osservando un quadro della casa, alla proprietaria originaria dell’immobile. Come il fantasma di un romanzo gotico, la giovane Lidia pronuncia l’ultima verità: «per quanto la nostra giovinezza ci venga raccontata come una dote irrinunciabile, io sento di aver perso tutto. Lo dico con pace, con serenità, e senza alcun rancore, perché era inevitabile: abbiamo perso tutto».

Leggi anche:
«Consolazione». Il mito new weird di Roccasa

Irene impara a proprie spese quello che ha imparato anche la Lidia degli anni Ottanta: non c’è via di fuga dalla morte e dalla fine. Possedere immobili e cancellare le tracce della loro storia non porta all’eternità, anzi, rende più evidente l’impossibilità di controllare il tempo e la natura. Come la statua di Ozymandias raccontata da Percy B. Shelley nell’omonimo sonetto, tutto si annulla col tempo, e saremo sempre condannati alle stesse inquietudini del passato: alle stesse ambizioni di perfezione e di successo che ci fanno cadere e cancellare dal tempo che passa.

«Il cerchio perfetto»: il genius loci di un’eternità fallita

Con Il cerchio perfetto (acquista) Claudia Petrucci dimostra di essere in grado di confrontarsi con temi classici della letteratura in maniera originale, attingendo non soltanto alla tradizione gotica e distopica, ma anche ai discorsi sul weird e sulla contemporaneità come l’emergenza climatica e quella abitativa. In questo romanzo si nota benissimo l’evoluzione del concetto di casa, passata dall’essere manifestazione della ricchezza e del benessere a diventare soglia di un tempo circolare dove tutto inizia e tutto si annulla, dove non è più possibile nessun ideale di grandezza e di protezione dalle minacce esterne, e dove risulta impossibile controllare la natura e il tempo.

Mi sembra che tutta la mia esistenza non sia che una linea scura che procede, le stesse cose continuano a ripetersi ma davanti a queste cose io sono ogni giorno più vecchia, e anche più stanca, e tutte queste cose continuano a scorrere su quelle che sono venute prima, ripassano la memoria che le ha precedute, come se da questo momento in poi io non potessi scappare, neppure se volessi, in questo modo il futuro mi appare come un profondo incubo, è come se potessi vederlo: tutto ciò che oggi amo è sparito, consumato, non so più riconoscere nulla di quel che mi sta intorno, non sono più io ma un corpo che si muove disperso in una nebbia eterna; allora tutte le promesse che oggi mi vengono fatte, le promesse che anche io ho fatto a me stessa, di un futuro luminoso, radioso, mi sembrano già infrante.

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

Lascia un commento

Your email address will not be published.