Una pampa di fantasmi e rancori

«Come se esistesse il perdono» di Mariana Travacio

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«Come se esistesse il perdono» di Mariana Travacio

Mandriano, cowboy o gaucho. Lo si può chiamare in tutti i modi che si vuole, le sue storie possono ambientarsi nel Far West americano o nella pampa argentina, ma si tratta sempre di un uomo che vive fuori dalla civiltà urbanizzata, che esalta i valori della fatica e del coraggio, che combatte sempre per difendere la propria identità, ma soprattutto contro i propri fantasmi, rancori e un destino a lui già prescritto.

Sono dei gaucho anche i protagonisti di Come se esistesse il perdono, romanzo dell’argentina Mariana Travacio che la neonata Cencellada Edizioni ha portato per la prima volta in Italia lo scorso aprile con traduzione di Giulia Zavagna.

La trama di «Come se esistesse il perdono»

Come se esistesse il perdono inizia con un’atmosfera da vero film western. Inizia col silenzio del caldo torrido della pampa argentina, in un clima dove l’aroma della terra secca si fa più forte durante la sera rovente. In un bar del deserto Manoel, il narratore e orfano di entrambi i genitori, Juancho e il Tano stanno bevendo un gin in compagnia, quando all’improvviso, dalla bruma della polvere, giunge uno straniero, tale Loprete.

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Da un malinteso, però, nasce una rissa fra il Tano e Loprete, che porta alla morte accidentale di quest’ultimo. Tuttavia, questo omicidio involontario mette in moto un meccanismo più grande dei protagonisti: una scia di vendetta e rancori che dal passato piomba nel presente e che non lascia scampo a nessuno. A osservare il tutto Manoel, che di questa macchina di rancore è uno degli ingranaggi, se non addirittura l’artefice.

«Come se esistesse il perdono»: elementi di letteratura gauchesca e possibili influenze

Come se esistesse il perdono risente molto dell’influenza della letteratura gauchesca, una branca della letteratura sudamericana che vede nei suoi principali esponenti il poema Martín Fierro di José Hernández (1872) e Juan Moreira (1880) di Eduardo Gutiérrez. In questo caso, però, non abbiamo un semplice scontro contro gli invasori, ma quella del gaucho diventa una condizione esistenziale, la storia di un uomo piccolo di fronte alla vastità della Pampa, che nulla può contro il proprio destino.

In questo senso, i possibili modelli di Travacio per il proprio romanzo sono due: uno, spesso citato dalla critica sudamericana, è Juan Rulfo, in particolare Pedro Páramo, e l’altro è Jorge Luis Borges. Del primo Travacio ha mutuato lo stile modernista ed espressionista, in cui il mondo mentale del protagonista fatto di rancori mai sopiti e fantasmi si riflette nella realtà esterna e il confine fra immaginazione, sogno e realtà si fa labile. Del secondo invece, in particolare del racconto Il morto, contenuto nella famosa raccolta di racconti L’Aleph, l’autrice argentina mutua il fatalismo e l’ineluttabilità del destino dei personaggi.

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Di Borges, ma anche del Gabriel García Márquez di Cronaca di una morte annunciata, Travacio mutua anche il modo di narrare. La narrazione, infatti, è sì in prima persona, ma i narratori osservano il tutto da un punto d’osservazione distante rispetto alle vicende narrate, quasi a rimarcare il fatalismo degli eventi raccontati. Inoltre, anche le riflessioni metanarrative presenti nel libro di Travacio devono molto a questi ultimi due modelli. Queste riflessioni non solo danno un tono popolare al racconto, ma servono a tematizzare lo spirito di vendetta che avvolge in parte anche il narratore Manoel, che attraverso la narrazione pare vendicarsi dei torti subiti, in particolare la morte dei genitori.

La pampa: luogo di dolore e vendetta

Dopo la morte di Loprete, fin dall’inizio la pampa si tramuta in un luogo in cui dalla vendetta non c’è scampo, in cui è impossibile guarire le ferite inferte e ricevute. La terra, infatti, viene descritta come «assetata», un luogo che non cancella le tracce del passato nemmeno con la pioggia perché incapace di spegnere la propria sete di vendetta e il cui odore pervade il ricordo di chi la abita:

Quando smise di piovere e uscimmo in giardino, sentii per la prima volta l’odore della terra bagnata. Mi ricordai di Loprete e dei suoi campi d’acqua: la terra non vola via, resta aggrappata al suolo; non c’è vento che la sollevi. Non dimentico quell’odore di terra bagnata, come non dimentico le parole di Loprete prima che lo uccidessimo.

Questa descrizione ricorda molto le atmosfere che si leggono nel già citato Pedro Páramo di Rulfo. Come in quest’ultimo, infatti, la pioggia assume un ruolo fondamentale anche nel romanzo di Travacio: è ciò che risveglia i ricordi dei protagonisti, e invece di lavarli via li fa aderire alla pelle dei protagonisti, agendo anche attraverso l’umidità che ristagna nel caldo torrido, che misto all’odore della terra secca impedisce ai protagonisti di disfarsi del dolore e del rancore verso i Loprete.

Un altro aspetto fondamentale è anche la vastità della pampa e del deserto, che amplifica ogni suono circostante. Gli zoccoli dei cavalli, le voci dei gaucho, ma anche il rumore della pioggia richiamano Manoel e gli altri protagonisti del romanzo a un’esistenza che ha come solo fine quello di spegnere la propria sete di vendetta, di cercare di farla finita con i romanzi del passato, anche al costo di andare incontro alla morte:

Montammo a cavallo, io e il Tano: ormai non ci importava più di far rumore, anzi, preferivamo essere visti. E farla finita con questa storia una volta per tutte. Così doveva essere fin dal principio. Come aveva detto il Tano: questa è una cosa nostra.

L’eco insopportabile del dolore

Manoel e il Tano continuano a vivere con l’idea di dover combattere subito i fantasmi per evitare che questi si facciano più forti. Più la storia procede, più fantasmi e rancori si sommano a quelli che i due già hanno accumulato, in quanto i fantasmi che li tormentano infestano la terra secca della pampa, ma anche le loro menti, come dimostra questa riflessione di Manoel legata alla perdita dei propri genitori:

Io già volevo tornare, ma da quando avevo scoperto la storia dei miei genitori lo volevo ancor di più, come se il nodo che avevo allo stomaco si fosse trasformato in vento e mi soffiasse dentro. Volevo raggiungere quelle terre d’acqua. Volevo vederle con i miei occhi, vedere se erano vere. E avevo un’angoscia annodata in gola: una voglia tremenda di ammazzarli tutti. C’era un Loprete seppellito nel rancho del Tano; me ne mancavano otto. A cominciare da quello che aveva aiutato a uccidere i miei.

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Il narratore e protagonista vive alimentato da una forte sete di vendetta che, però, non si placa nemmeno nel momento in cui arriva alla tenuta dei Loprete e in cui forse riesce a ottenere redenzione. Nemmeno la rielaborazione del dolore attraverso la realizzazione dei propri disegni riesce, in qualche modo, a risolvere il dolore che pervade la testa di Manoel. La morte continua a sommarsi ad altra morte, altra vendetta si somma a quella precedente, e il dolore diventa più grande, in quanto Manoel è ormai coinvolto in un circolo senza fine dove è impossibile spegnere la propria sete di vendetta e il proprio dolore.

È qui che ritorna l’eco di Pedro Páramo. Come quest’ultimo, Manoel si tramuta in un «rancore vivente», che mai si spegne, che riecheggia nella pioggia, nella terra secca, e soprattutto negli incubi e nei sogni. La vastità della pampa riflette l’infinitezza della vendetta, che nemmeno la ricostruzione dei ricordi spezzati di Manoel può esorcizzare.

«Come se esistesse il perdono»: l’impossibilità della redenzione

Riformulando la tradizione letteraria gauchesca con il fatalismo dei grandi narratori sudamericani, Mariana Travacio racconta in Come se esistesse il perdono (acquista) una storia in cui il dolore e la vendetta sono vasti e desolanti quanto la pampa argentina. Manoel, e con lui il Tano e i Loprete, comprende come sia impossibile sfuggire al proprio dolore, ma allo stesso tempo l’impossibilità di una redenzione. La vendetta è destinata a non spegnersi mai, ogni morte aggiunge ancora più rancore che porta inevitabilmente alla fine.

Alla sorella del Tano piaceva guardare il mio quaderno. Mi chiedeva dove avessi imparato a disegnare così. Io le dicevo che avevo imparato lì, nel suo paese, per la semplice necessità di toccare quelle terre, di toccare quei fratelli, di renderli concreti anche se solo sulla carta. Mi chiedeva sempre di disegnare anche lei. Ma io le dicevo di no. No, Luisa, non posso disegnarti. Disegno solo il rancore.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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