Si usa l’espressione stella maris per indicare la Vergine Maria non solo come guida e stella polare per i cristiani, ma anche come protettrice di coloro che viaggiano in mare. Stella Maris è anche l’ultimo libro di Cormac McCarthy, pubblicato da Einaudi lo scorso settembre. È anche l’ultimo capitolo di un dittico iniziato con il precedente Il passeggero, e con quest’ultima fatica l’autore originario di Providence, morto lo scorso giugno, ha cercato di dare una risposta ai suoi dubbi relativi al rapporto fra realtà e linguaggio, quest’ultimo forse la stella maris che McCarthy da anni andava cercando con la sua narrativa.
Essendo Stella Maris in stretta relazione con Il passeggero, nel corso dell’articolo capiterà di dare qualche anticipazione relativa a quest’ultimo. Si suggerisce, pertanto, la lettura di quanto segue soltanto a chi ha già letto Il passeggero per evitare di dare troppe anticipazioni a chi il libro non lo ha ancora letto.
La trama di «Stella Maris»
27 ottobre 1972. La ventenne dottoranda di matematica presso l’Università di Chicago Alicia Western si fa ricoverare volontariamente nella struttura psichiatrica di Stella Maris a Black Falls, nel Winsconsin. Alla ragazza, anoressica e con probabili tratti autistici, è stata diagnosticata una schizofrenia paranoide che spesso comporta allucinazioni visive e uditive, come la presenza del Talidomide Kid, personaggio già visto in Il passeggero.
Nella struttura psichiatrica dove si trova ricoverata, la protagonista intratterrà un dialogo serrato con il dottor Robert Cohen sugli argomenti più disparati come la musica, la matematica e il linguaggio, ma soprattutto sul suo rapporto con il fratello. Alicia, infatti, è la sorella di Bobby Western, sommozzatore che abbiamo già conosciuto in Il passeggero e che aveva cercato di indagare il rapporto fra la realtà e la sua rappresentazione. Quello che la protagonista dirà in questo nuovo romanzo, però, non solo ci dirà qualcosa in più su questo rapporto morboso fra fratelli, ma infittirà ancora di più il mistero sul rapporto fra inconscio, linguaggio e realtà.
Bobby e Alicia: due facce della stessa medaglia
Il mistero si infittisce sempre più in quanto, se nel primo romanzo del dittico troviamo solo Bobby in quanto Alicia è morta suicida – e di quest’ultima leggiamo soltanto le parti in corsivo relative ai ricordi del passato –, nel secondo romanzo del dittico, invece, troviamo soltanto Alicia, che già all’inizio del libro racconta di come suo fratello sia caduto in uno stato comatoso.
Tutto ciò ci induce a credere che Bobby e Alicia siano due facce della stessa medaglia: da un lato il più matematico e razionale Bobby, e dall’altro la più irrazionale e inconscia Alicia. Lo stato comatoso dell’uno si riversa nella vita dell’altra, il suicidio dell’una dà sfogo alle riflessioni dell’altro. Fatto sta che con le sue allucinazioni la protagonista cerca di dare un senso e forma a ciò che vive. In un certo senso si trova riscontro di quanto scritto da McCarthy in Il passeggero: «sogno e vita confluiscono in una curiosa equivalenza», che dovrebbero portare sia Bobby che Alicia in una vita oltre la vita.
La matematica è un’impresa basata sulla fede
In questa ricerca della vita oltre la vita, fondamentale è il rapporto fra la matematica, la fisica e la fede, che già Bobby Western ha affrontato nel precedente romanzo, nel momento in cui ha affermato come «la fisica cerchi di fornire una rappresentazione numerica del mondo» anche se «non si può illustrare l’ignoto». Alicia, però, compie un passo in più rispetto al fratello, dicendo che la matematica in realtà trascende il numero, considerandola quindi «un’impresa basata sulla fede»:
Da molto tempo penso che le verità fondamentali della matematica debbano trascendere il numero. Dopotutto è una questione un po’ traballante. Nonostante la sua notevole bellezza. In teoria le leggi della matematica deriverebbero dalle regole della logica. Ma non ci sono argomenti riguardo alle regole della logica che non le presuppongano. Una cosa che potrebbe evocare l’analogia con lo spirituale suppongo sia la constatazione che le più grandi intuizioni spirituali sembrano derivare dalle testimonianze di gente che barcolla nel buio.
Più avanti nel corso del romanzo, Alicia non solo parla delle «esperienze trasformative» di vari matematici, ma fa riferimento anche al sogno del serpente che si morde la coda di Friedrich August Kekulé, su cui McCarthy ha scritto il suo primo e unico saggio come frutto dei suoi studi presso il Santa Fè Institute. Ciò, dunque, porta la protagonista a dire come la matematica sia prodotto dell’inconscio, e di conseguenza come anche la matematica sia linguaggio che cerca di tradurre e fissare ciò che si cela dietro la realtà
Il linguaggio oltre i limiti del mondo
Da matematica, Alicia afferma di avere dubbi sulla sua visione materialistica dell’universo. L’universo non ha una forma fissa e stabile, e così anche la matematica, come afferma la protagonista in questo scambio di battute con il dottor Cohen in riferimento alle teorie di Kurt Gödel:
Credo di aver messo a fuoco quello che aveva messo a fuoco lui. Che identificare i limiti di un sistema non era solo identificare i limiti. Era identificare quello che c’era oltre i limiti. Dovevi solo cominciare coll’identificare i limiti.
E che cosa c’era oltre i limiti?
In questo caso la presa di coscienza che di fatto quello che avevi a lungo sospettato era vero. Che la matematica non aveva limiti. Che era inesauribile. Questo ormai era fuori discussione. E adesso dovevi metterti lì e pensare all’universo.
E cosa pensavi? Dell’universo.
Pensavi che la tua ricerca avrebbe arrancato sotto una sempre minore disponibilità dell’empirico. Già mentre lavoravi l’universo si allontanava.
In quanto linguaggio, la matematica è prodotto dell’inconscio e del trascendente. Si evolve, infatti, con l’evolversi della nostra mente, o meglio, con la consapevolezza che la nostra mente sviluppa nell’imbattersi in nuovi dubbi, come l’ignoto o l’esistenza di Dio. Citando il Finnegans Wake di James Joyce, McCarthy scrive che «eravamo júngani e facilmente fredulietate»: la realtà esiste perché traduciamo l’inconscio freudiano in archetipi junghiani, ovvero in linguaggio, che ci fornisce una visione comune del mondo.
Alicia, dunque, giunge alla conclusione che «ci sia una realtà sufficientemente durevole per sostenere la sua stessa infinita sperimentazione». Il mondo continua a esistere perché la matematica, l’arte e il linguaggio sono concetti fondativi della realtà, «del mondo stesso e di tutto ciò che contiene»: Dio, la vita oltre la vita e tutto ciò che ci è ignoto esistono perché siamo noi che decidiamo di farle essere e di incarnarle.
Il testamento spirituale di Cormac McCarthy
Parlando di Il passeggero, si era già detto che per tirare le somme si sarebbe aspettata la lettura di Stella Maris (acquista). Adesso è, dunque, possibile trarre conclusioni su quello che possiamo definire il testamento spirituale di Cormac McCarthy, una grande opera che si fa sempre più scarna di parole, ma ricca di immagini e simboli. McCarthy riesce a dare una soluzione al suo nichilismo affermando come, se da un lato «Dio non esiste e siamo i suoi profeti» (La strada, Einaudi, 2010), dall’altro noi stessi possiamo creare Dio e tutto ciò che sta oltre la vita e il mondo.
Una delle cose di cui ho preso coscienza è che l’universo è evoluto per miliardi e miliardi di anni nell’oscurità e nel silenzio assoluti e che il modo in cui lo immaginiamo non corrisponde a quello che è. In principio c’è sempre stato il nulla. Le novae che esplodevano in silenzio. Nell’oscurità assoluta. Le stelle, le comete fugaci. Nel migliore dei casi tutto di un’esistenza ipotetica. Fuochi neri. Come i fuochi dell’inferno. Silenzio. Nulla. Notte. Soli neri a guidare i pianeti in un universo dove il concetto di spazio era privo di senso per mancanza di una fine. Per mancanza di una nozione cui contrapporlo. E di nuovo la questione della natura di quella realtà che non aveva testimoni. Tutto questo finché la prima creatura vivente dotata di vista ha acconsentito a che l’universo si imprimesse sul suo apparato sensorio primitivo e tremulo e poi a corredarlo con colore e movimento e memoria. Ha fatto di me una solipsista dalla sera alla mattina e in qualche misura lo sono ancora.
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