«Corpo striato», la poesia come viatico o crisma

Riccardo Frolloni colma il vuoto della perdita a partire dai sogni e dai ricordi

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«Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo». Per la scrittrice di lingua danese Naja Marie Aidt, di fronte a una perdita si reagisce attraverso la parola, capace di trasformare il silenzio in presenza. Ciò vale anche per Riccardo Frolloni, poeta e traduttore di Richard Harrison e Ron Padgett, che per la collana «Poetica» della casa editrice indipendente massese Industria&Letteratura ha pubblicato lo scorso giugno la raccolta Corpo striato.

«Corpo striato»: un canzoniere in mortem

Corpo striato può essere definito un canzoniere in mortem scritto in versi liberi che assumono un ritmo tipico della prosa. Se la tradizione letteraria incentrava tutto sul dolore individuale della perdita, Frolloni non lamenta semplicemente la morte del padre. L’autore fa rivivere la sua figura intrecciando i sogni e i ricordi con la dimensione del presente rendendo universale la sfera individuale del lutto.

La raccolta è suddivisa in sezioni che si intrecciano fra loro: Sogni, dove si stabilisce la presenza del padre nella dimensione onirica; Movimenti, che narra il presente del lutto e i suoi effetti sulla famiglia dell’io lirico; Materiali, dove l’io lirico ricostruisce la sua comunità di riferimento. Queste sezioni convergeranno presto in un unico punto, dove per Frolloni è possibile stabilire un tempo zero, quello della poesia Memoria 0, al fine di, parafrasando Paul Auster, inventare una solitudine per colmare l’assenza:

Un uomo malato è tutto corpo
e morendo neanche questo, forse
a fare un corpo ci vuole tutta una terra.

«Corpo striato»: il rapporto fra la parola e la morte

Come scrive Stefano Colangelo nella prefazione, il corpo striato è «il nucleo della base del cervello, implicato nella gestione del muoversi, dell’eseguire, di un dominio dei gesti che assumerà a un certo punto il carattere definitivo della spietatezza». La stessa spietatezza che osserva l’io nella poesia Materiali V, quando parla del morbo di Parkinson della signora Nilla:

in confidenza, da donna a donna, parla
della testa, di una ferita al corpo striato, lo dice
come una vergogna, al corpo striato,
                                                      la notte
non riesce a trattenersi, si muove,
                                                   il movimento
che solo la morte può zittire.

La parola di Frolloni deve coordinare i suoi pensieri e movimenti per mettere ordine al tempo del qui e ora, tempo del movimento di dolore che ha provocato la morte del padre, ma che va superato intrecciando i ricordi dell’uomo con la sua assenza presente. Il superamento della morte spesso comporta la trasposizione del reale, come spiega l’autore nella Nota II:

Mi sembra quantomeno imbarazzante ribadire che né io né mio padre né chiunque altro presente in questi testi, né i luoghi né i dialoghi – nulla è reale. La morte è reale. Pertanto usiamo la finzione, la narrazione, per esorcizzare, superare, elaborare la morte. Se avviene il transfert, allora a qualcosa è servito. Che sia questo viatico o crisma.

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Parola chiave è, quindi, “crisma”, che Colangelo ricorda di aver letto nel titolo della tesi di laurea dell’autore dedicata a Nel Magma di Mario Luzi: La parola come crisma. La parola come balsamo, come cura, ma anche come mezzo per viaggiare «nel posto da dove non sei mai partito». La parola come crisma è quella che, ritornando ad Aidt, restituisce la presenza del padre nel tempo del presente, che diventa un tempo zero e inganna la morte trasformandola in presenza:

Queste poesie, che adesso separano ancora il lettore da quell’ultima parola, e che tra poco lo condurranno fino a quel punto, sono il percorso che perde più volte – e poi riconquista – una direzione, un orientamento, come in una camminata fatta senza coordinate, per istinto, nell’inganno feroce della sua storia.

I sogni del padre e la penetrazione del presente

Il percorso che il lettore intraprende assieme all’io parte dalla dimensione del sogno. I sogni sono momenti in cui si riesce a stabilire un contatto con la figura paterna. L’io ricorda il padre da solo in montagna in cima al primo promontorio, oppure assieme a lui e ai suoi amici durante una camminata estiva.

Come si può leggere in Sogni I, l’io ha paura di perdere tutte le immagini e i suoni collegati alla figura del padre:

un rumore dal fondo delle campagne s’intrufola,
diventa subito un fischio, mio padre già in cima
del primo promontorio, ce ne sarà poi un altro
e un altro ancora, ma neanche una parola, aveva il volto
sereno, da uomo, mi ammoniva di salire, di darmi
un tono, ma io arrancavo, passavo da altre parti, lo perdevo,
lentamente gli altri scomparivano nelle nuvole
o dietro ai sassi, io pure mi facevo più bianco con la pelle
fredda di sudore, mi dicevo non svenire ora, resta sveglio, svegliati.

L’ultimo verso, che recita «non svenire ora, resta sveglio, svegliati» allude a una compenetrazione fra la dimensione onirica e del ricordo con quella del reale, ovvero la trasposizione della morte necessaria all’io per superarla. Il buio, ma anche «il ronzio come di falene» che l’io ascolta nell’aria in uno dei suoi sogni sono, infatti, elementi comuni alla dimensione del reale, in cui il vuoto lasciato dal padre è consistente. In questo senso, dunque, il bosco, immagine ricorrente nel sogno, diventa «un torcersi di lenzuola», mentre l’apparizione della luna il momento «quando poi parli della vita o solo».

Movimenti e materiali del corpo striato

L’io comprende che sogno e realtà comunicano tra loro. L’assenza del padre governa sulla sua vita e quella della famiglia ed è necessario riportare il vuoto da lui lasciato nel presente. L’io, infatti, afferma che «non avevo dio prima del padre», a riprova del fatto che la sua parola, assieme alla figura paterna, sono necessarie ai fini dell’atto creativo e al superamento della morte.

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Per l’io ricostruire il passato degli zii e dei nonni, confrontarsi con la signora Nilla e il suo morbo di Parkinson e con le tracce lasciate dal padre sono momenti in cui passato e presente convergono, il cui il dolore e l’impossibilità di colmare l’assenza si fanno più forti:

penso ai movimenti stupidi che poi si ricordano, i dettagli,
gli odori a cui non penso mai e che ora mi tormentano, il cuscino
prima puzzava di sudore, di testa rasata, invece ora niente, pulito.

È in questo momento che giunge la consapevolezza dell’io: il dolore è universale, per superare il lutto non solo ci vuole la parola, ma anche il ricordo, l’abbraccio di una persona come momento di condivisione per «ricalibrare la vita», ma soprattutto «esserci / col fantasma che si aggira ovunque». Rivolgendosi alla madre nel componimento Preghiera II, l’io sceglie di «farsi parte di questo niente», accettarlo come parte della nuova esistenza dopo il padre.

Il tempo zero della memoria

Una volta presa consapevolezza dell’accettazione del vuoto e della mancanza del padre, per l’io giunge il momento di stabilire un tempo zero, come si legge nei seguenti versi di Memoria 0:

[…]Nella dimenticanza ho trovato la forza. Nella confusione
      [delle direzioni o nel magma,
nello scioglimento dei soggetti, dimentico e perciò narro, costruisco, mi metto
      [controvento, con gli occhi
rossi per gli schiaffi, continuo. Ma quando la corsa si arresta non capisci, non ricordi
      [più di che cosa correvi.
Provi di nuovo ad ingannarti, ma stavolta la tecnica si svela, si vedono le
      [impalcature e la naturalezza
non ha più lo stesso aspetto, anche nel giardino vedi sofferenza, le fibre sono
      [strappate, sfinite, soffoca un fiore
per fare spazio a un altro fiore e questo viene battuto, schiacciato da un piede e
      [nessun grido.

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L’io rinasce in un mondo in cui il padre continua a esistere in absentia, nei ricordi, negli oggetti da lui lasciati, ma anche nelle fotografie, soprattutto quelle che l’autore pone in appendice nell’Apparato, che bloccano il continuum del tempo presente per crearne uno nuovo in cui il padre continua a vivere. Tutti questi elementi «possono dirti tutto, ormai senza misteri». L’io ha scoperto il mistero più grande, rivelato in una poesia inserita nell’apparato che Andrea Donaera, romanziere, poeta e amico di Frolloni, gli dedica dopo la morte del padre:

(finalmente qualcuno:
il più vivo tra i vivi
perché morto a metà.
Così sarà. Non passerà lo spacco
sulla terra che calpesti. Ma tu
resti).

L’io è colui che resta, poiché la morte del padre lo ha reso ancora più vivo. Lo ha messo, infatti, nella condizione di ricostruire la propria vita, di confrontarsi con la morte ma anche di superarla sia attraverso la parola poetica che i ricordi del passato.

«Corpo striato»: la poesia come viatico o crisma

Corpo striato (acquista) di Riccardo Frolloni non è semplicemente un canzoniere in mortem. È un viaggio nel proprio dolore, nei sogni di sofferenza che ci tormentano, nell’assenza lasciata da un lutto, ma è soprattutto la prova che la parola poetica è un crisma: consolazione, ma anche possibilità di ricostruire una vita a partire dalla morte, con la consapevolezza che continui nei ricordi e nelle tracce lasciate da chi non c’è più.

Padre, tu che ora sei infinito
hai chiuso col passato, noi

invece ti cerchiamo nei frammenti,
nella ripetizione di parole, e sempre

sembri una poesia. Padre, dammi la forza,
fuori c’è un vento un vento un vento

strabico, come i pensieri.

Riccardo Frolloni, Preghiera I, da Corpo striato

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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