A Chartres, nel nord della Francia, Raymond Isidore, ex fonditore e poi pulitore di rotaie e custode di cimiteri, costruì una cattedrale fatta di detriti. Su di lui Edgardo Franzosini scrisse il romanzo Raymondo Isidore e la sua cattedrale, dove i detriti di Isidore assumono senso in quanto parte di un qualcosa di più grande, ovvero la storia del nostro tempo. Accumulare oggetti e detriti, dunque, se da un lato è visto come un’ossessione che sfocia nella malattia, dall’altro è visto come un modo per chiamare a sé il passato e cercare in qualche modo di esorcizzarlo attraverso la sua narrazione. Narrare il passato significa difatti liberarsi del passato e poter procedere verso il futuro.
Come Franzosini, anche la finalista al Premio Calvino 2022 Jessica La Fauci ha scritto una storia analoga. La Fauci, infatti, ha debuttato recentemente con il romanzo Croste, terzo titolo della collana «Labirinti» curata da Sergio Vivaldi per i tipi di Agenzia Alcatraz, la cui protagonista accumula macerie del passato per cercare di tenerlo a sé e venirne definitivamente a patti.
La trama di «Croste»
La protagonista di Croste è Nina, una donna di trentatré anni alle prese con un passato ingombrante: una relazione finita, un amore mai dichiarato per Flavio, e un’amicizia, quella con Fiona, ormai appartenente al passato. Nina eredita dalla sua famiglia una cantina, «una stanza piccola e umida» dove le cose sono conservate in «sacchi di nylon», quasi fossero un peso inutile di cui disfarsi subito, e che solo una persona come Nina, accumulatrice seriale di passato, può accogliere nella propria vita.
In questa cantina dalle pareti umide e ammuffite, le cose inessenziali che sono conservate sono in realtà sono come gli Odradek di kafkiana memoria: oggetti all’apparenza insignificanti, ma che assumono un significato importante per chi li possiede. Per la protagonista, gli oggetti inessenziali della sua cantina sono parte di un passato che deve sì raccogliere, ma di cui presto deve disfarsi per guarire le ferite del tempo e voltare pagina una volta per tutte, come le croste sul ginocchio, che prima o poi devono cadere per guarire definitivamente lasciando comunque traccia di quanto si è vissuto.
Accumulazione ossessiva del passato
Jessica La Fauci ci presenta una storia che non soltanto ricorda la vicenda di Raymond Isidore, ma che ha riscontro in altri precedenti narrativi. Si pensi, ad esempio, a Scarti di Jonathan Miles (minimum fax), ma anche a L’anno che a Roma fu due volte Natale di Roberto Venturini (Sem). In questi esempi abbiamo a che fare con storie di accumulatori seriali – di detriti, rifiuti, ma anche di ricordi del passato – che hanno difficoltà a disfarsi del proprio passato, ma che paradossalmente si servono dell’accumulo del passato per creare una sua narrazione che li aiuti a esorcizzarlo per poter vivere nel presente.
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L’invenzione del ricordo
L’autrice muove i suoi passi da L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, che cita in esergo nel momento in cui dice che, una volta raccolti e riordinati i ricordi del passato, essi «rivelano mosaici di gemme splendenti per la comprensione della vita propria e degli altri». L’accumulo in questo romanzo non è soltanto a livello di trama, ma anche di struttura del testo, in quanto il testo è formato da tanti brevi capitoli che si accumulano per permettere una comprensione di sé e del passato.
Un altro aspetto interessante è la narratologia. La narrazione si svolge in terza persona con focus intradiegetico su Nina. Quest’ultima, difatti, si fa detrito, un corpo da riassemblare e comprendere che, una volta compreso appieno, può essere cancellato e disfatto come simbolo di un passato ricordato, risolto e superato. Anche il corpo di Nina, alla fine, è una crosta che deve cadere per far sì che la protagonista possa guarire una volta per tutte dalle colpe e dai rimorsi del passato per muoversi nel futuro sapendo che ogni esperienza, anche quella più negativa, le ha permesso di vivere.
La cantina come cronotopo della memoria
Un ruolo importante in questo accumulo di ricordi del passato è la cantina. Essa, come la cattedrale di detriti di Isidore o la casa a Villaggio Tognazzi di Alfreda in L’anno che a Roma fu due volte Natale, è cronotopo della memoria: un luogo in cui il passato è rinchiuso fra le mura e il tempo si è fermato, ma che Nina deve abbattere per poter vedere la luce e riappropriarsi della sua vita.
Era solo un’eredità di scatoloni, apparecchi che dovevano esser serviti a qualcosa, ferro arrugginito e pacchi di foto con volti cui lei non sapeva dare un nome, bambini accatastati contro un muro, la terra di macerie ed erba tra le fessure, persone che ridevano addossate a un palazzo, riconosceva forse una via, una facciata, e poi frasi nel retro, scritte per fermare qualcosa, o più probabilmente per salvare qualcosa.
Inizialmente, per Nina questi oggetti non hanno nessun significato, ma le frasi che legge dietro le foto e gli oggetti degli scatoloni fanno emergere in lei frammenti di ricordi: il matrimonio del suo migliore amico Flavio, la giostra con il maiale, i nonni oppure la città «burbera, complicata e antipatica» in cui viveva (molto probabilmente Genova, chiamata fra le altre cose “la superba” e città di origine di La Fauci). Non soltanto tutti questi ricordi accatastati, però, costituiscono la cantina, ma anche i muri, che narrano «le cose di cui non ci si era presi cura».
Queste cose di cui non ci si era presi cura lasciano Nina con un dilemma: «era da lei che doveva nascere qualcosa o era di qualcosa che non era rimasto altro che lei?». Gli oggetti e le foto che Nina osserva la portano a riflettere sul fatto che sì, del passato lei è l’unica che è rimasta, immobile e rinchiusa fra le mura di una cantina ammuffita, ma è proprio lei che è rimasta a dover prendere e buttare quanto non serve più, quanto è stato metabolizzato per creare il futuro.
Consegnare la propria immagine a un futuro che si ignora
Nina, dunque, si ritrova nella situazione di dover «consegnare la propria immagine a un futuro che si ignora». Per farlo, la ragazza segue quanto ricorda del suo amico Flavio e del suo rapporto con i luoghi e le persone incontrate nella sua vita:
Flavio era una casa, anche senza fiori e senza cose: bastava lui. Era come se si portasse appresso una coperta e non dovesse fare altro che stenderla, ovunque si trovasse, per sentirsi al sicuro e far sentire così anche gli altri. Non era legato a niente: era questo il suo segreto. Non era radicato, non credeva che le persone dipendessero dai luoghi, semmai erano i luoghi a dipendere dalle persone. Era sempre lui a creare.
Nina comprende che al suo mondo e alla sua cantina deve dare uno scopo e una direzione, in quanto sono quest’ultimi a dipendere da lei, e non il contrario. Le cose esistono perché lei decide di farle esistere attraverso il ricordo. Ed è in questo frangente che Nina esprime l’imperativo categorico che l’aiuta a svoltare: «Prendi, cantina, tutto quello che non posso buttare, tutto quello che non posso tenere».
Conservare le tracce di ciò che resta
La donna inizia così la sua analisi del tempo: i ricordi di quando aveva dodici, ventisette oppure trent’anni. Conta i buchi sulle cosce «per capire quanto tempo è passato» e per capire quanto ancora ne resta da vivere per «non finire nell’angolo, non occupare la sedia di legno». Nina comprende che non può controllare tutto, che prima o poi le cose finiscono e il tempo passa. L’unica cosa che può fare è soltanto conservare una traccia di quello che resta, darle un nome, e da lì partire per creare qualcosa di nuovo.
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Raccontare il dolore di chi resta
Come scrive Marilena Votta nella postfazione, «siamo croste sul ginocchio […] e il nostro ginocchio ci mostra una ferita, un segno di scorticatura che rivela le tracce del nostro stare nel mondo. E quel segno sul ginocchio rappresenta già la misura colma di tutta la vita che possiamo sopportare». Anche se il tempo scorre, i nostri incontri e le nostre esperienze lasciano un segno indelebile su di noi: questo è un segno del nostro vivere. È questa consapevolezza che ci permette di vivere nel futuro: la consapevolezza di sapere che tutto è destinato a finire, ma tuttavia tracce di noi restano negli altri e nei loro ricordi.
Croste del nostro vivere sul ginocchio
Jessica La Fauci scrive con Croste (acquista) un esordio che a livello stilistico e contenutistico si dimostra già maturo. L’autrice genovese è la riprova di come si possa parlare degli stessi temi in maniera sempre nuova: la storia di Nina, infatti, ci illustra come ricordare sia sì necessario, sia sì un elemento fondamentale del nostro vivere, ma allo stesso tempo ci porta a riflettere su come non basta solo vivere di passato per esistere. La memoria del passato finirà con la nostra fine, e per garantirsi un futuro è necessario non solo capire che ciò che è finito lascia un traccia della propria esistenza, ma anche comprendere l’importanza di lasciare andare ciò che non possiamo tenere.
Trent’anni caricati del prima che mi esclude, il prima degli altri, il prima di me. Non c’è spazio oltre il confine del mio corpo, non c’è luogo che mi includa oltre la massa della mia carne. Strabordano le mie giornate incolonnate, strabordano quelle degli altri che mi arrivano addosso, mi ammaccano. Prendi, cantina, perché niente sia più mio, giacché tutto è inevitabilmente, insistentemente. Mio.
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