Italo Calvino scrisse:
Dante cercava attraverso la parola di costruire un’immagine dell’universo: l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo scrivere mosso da una spinta conoscitiva che è ora teologica, ora speculativa, ora di osservazione trasfigurante e visionaria. È una vocazione che esiste in tutte le letterature europee, ma che nella letteratura italiana è stata dominante sotto le più varie forma e ne fa una letteratura così diversa dalle altre, così difficile, ma anche così insostituibile.
L’oscillazione esegetica del poema dantesco denuncia un’omologa oscillazione critico-valutativa tra il binomio di visio e fictio. Per comporre la Commedia Dante ha sicuramente avuto accesso a una vasta biblioteca, ma non ha potuto prescindere da un ampio patrimonio di immagini.
Analisi del Canto XII
Come emerge dagli studi portati avanti da Lucia Battaglia Ricci, grava sul canto XII del Purgatorio uno spietato pregiudizio negativo, che coinvolge anche la catena degli esempi di superbia punita, sentita come un esercizio gratuito di pura tecnica letteraria, esercizio all’interno del quale continua a sfuggire il senso profondo e la relazione con il contesto narrativo.
È possibile considerarlo come un canto di passaggio, con una scarsa valenza poetica, appare inserito in una sorta di limbo fra le spiegazioni e i pentimenti di due peccati fondamentali: superbia e invidia. Già dai primi versi possiamo notare come si apra con un inizio piano, quasi sottotono, una scelta stilistica che si inserisce a pieno nello stato d’animo e nell’esperienza morale assimilata dal pellegrino. I protagonisti iniziali sono Dante, Oderisi e Virgilio: i due poeti procedono piegati per poter essere più vicini al miniatore e per poterlo ascoltare.
Nelle terzine iniziali Dante inserisce un chiaro rimando alla metafora della vita come navigazione su cui sono stati versati fiumi di inchiostro. Il rimando più eclatante di questa metafora è senza dubbio a Ulisse; fondamentale l’opposizione fra il naufrago omerico e il poeta che viene gloriosamente accolto ad abbandonare le insensate cure dei mortali che fanno cadere in basso. È esemplare la ricchezza di esempi qui inseriti dall’autore e la loro difficoltosa organizzazione: ciascuno infatti è illustrato con una sola terzina (sono ripartiti in gruppi di quattro), e ogni terzina di ciascun gruppo inizia con la stessa parola: troviamo infatti «Vedea» ai versi 25-36, l’esclamativo-vocativo «O» ai versi 37-48 e infine il verbo «Mostrava» ai versi 49-63. Il suolo figurato viene imitato dal testo figurato, che utilizza ora l’artificio dell’acrostico, acrostico la cui artificiosità è imitazione dell’artificio divino.
L’arte figurativa nella Commedia
I vizi sono intagliati nel pavimento, le tombe terragne portano incisi i segni che identificano i resti chiusi lì dentro, le lastre raffigurano disegni superiori in bellezza a quelli delle tombe terrestri, grazie all’artificio divino. Siamo nelle terzine 14-24, dove si realizza un mirabile avvenimento; come Bernardo da Chiaravalle invitava il superbo a guardare la terra, così Virgilio esorta il pellegrino ad abbassare lo sguardo, perché solo così riuscirà a «tranquillar la via» e ad allentare la contritio cordis. Secondo Marzot «per tranquillar la via» significa «per rassicurare Dante per permettergli di vedere senza timore»; Scartazzini invece ha spiegato questo sintagma con «non porre il piede in fallo», cioè non inciampare. Arnaut Daniel lo interpretò come un sollievo edonistico, mentre Petrocchi sostiene che così Dante ha modo di alleggerirsi per l’ascesa.
sì vid’io lì, ma di miglior sembianza
secondo l’artificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza.
Dante vede scolpiti sul pavimento gli esempi di superbia punita. Nel primo gruppo, composto dai versi 25-36, vi è prima un esempio biblico: Lucifero, il più bello degli angeli, precipita dal cielo dopo essere stato fulminato da Dio. Abbiamo poi due esempi appartenenti alla mitologia pagana: il gigante Briareo giace a terra morto dopo essere stato folgorato dalla potenza di Giove. Vede Apollo, Pallade e Marte armati intorno al padre Giove, mentre osservano le membra dei giganti abbattuti nella battaglia di Flegra. Ritorna poi il rimando biblico, appare il gigante Nembrot, smarrito ai piedi della Torre di Babele, mentre guarda le altre genti che a Sennaàr eressero con lui la superba costruzione. Nella terzina di chiusura viene illustrata la caduta di Troia.
Vedea colui che fu nobil creato
più ch’altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l’un lato.
L’autore vuole qui illustrare come le immagini che si trova ad ammirare non abbiano solo il ruolo di dilettare, ma servono da insegnamento: in questo si distacca da ciò che era la teoria dell’immagine illustrata da Virgilio nell’Eneide. La lettura morale di queste terzine figurative viene codificata da una trattatistica che ha come obiettivo la rielaborazione in chiave pedagogica e mistica dell’antica arte della memoria. L’aggiunta di un tredicesimo esempio porta alla rottura di uno schema fino ad ora utilizzato: il significato delle immagini risulta essere più complesso della similitudine teologica, mentre assistiamo alla creazione di una figlia, VOM, cioè uomo. L’ultimo esempio mostra la rovina di Troia, ridotta in cenere e umiliata dopo la superbia mostrata:
Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o Ilión, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!
Il processo di redenzione
Come sottolineato anche da John Scott, per Dante Troia simboleggiava l’orgogliosa superbia che tutto ardiva. Con la distruzione di Troia si conclude e consolida l’excursus morale sugli esempi stessi. La figura non viene più vista solo come mera raffigurazione di una storia, ma diventa un segno grafico, una struttura visiva che, tramite il segno, diventa un’immagine.
Utilizzando schemi innovativi Dante sottolinea come il processo di redenzione comporti sacrifici e sofferenza: ma solo attraversandolo sarà possibile alleggerirsi, ma soprattutto avvicinarsi maggiormente a Dio. Attraverso le immagini il pellegrino assume consapevolezza del proprio destino. Le rappresentazioni assumono quindi un valore salvifico. La superbia che aveva pervaso l’animo del pellegrino in tutto il canto viene affrancata nelle terzine conclusive. Dante si fa qui icona di perfetta umiltà, a conclusione del canto dedicato a raffigurare la presa di coscienza circa un problema morale, la superbia.
Alice Grieco