Per “sublimazione” si intende in chimica il processo che comporta il passaggio dallo stadio solido a quello aeriforme saltando lo stadio liquido. In senso lato, la sublimazione indica anche l’elevazione spirituale, una tensione verso l’assoluto che comporta l’annullamento dell’io. Sul concetto di sublime due sono i filosofi che fanno da punto di riferimento: Edmund Burke e Immanuel Kant. I due hanno stabilito come il sublime sia un misto di piacere e orrore scaturito da ciò che è infinito nello spazio e nel tempo.
Il concetto di sublime, dunque, procede di pari passo con quello di assoluto: ciò che è irraggiungibile suscita spavento ma anche fascino, e il suo raggiungimento comporta un annullamento del proprio io. Questa idea è al centro di Decreazione, saggio dalla forma sperimentale che fonde prosa, poesia e critica accademica pubblicato originariamente nel 2005 da Anne Carson, giunto quest’anno per la prima volta in Italia grazie a Utopia Editore.
«Decreazione»: la trama del libro
Il Sublime è grande. ‘Grandezza’ (o ‘magnitudine’) è uno dei sinonimi di sublime adoperati da Longino nel suo trattato [Sul sublime, ndr]. La sua grandezza minaccia di finire sempre fuori controllo, di sommergere e sopraffare l’anima che cerca di goderne. Questa minaccia fornisce al Sublime la sua struttura essenziale, un’alternanza di pericolo e salvezza, che altre esperienze estetiche (la bellezza, per esempio) non sembrano condividere.
Questo è il sublime spiegato da Anne Carson in Decreazione, una definizione a cui approda partendo dall’analisi del sonno in Omero, Virginia Woolf e Tom Stoppard arrivando fino a Longino. Per Carson, il sublime riguarda tutto ciò che è ignoto, incommensurabile e ingovernabile. Esso è inoltre strettamente legato all’atto creativo, in quanto «l’oratore sublime, il sublime poeta, il critico sublime, non sono che persone selvaggiamente smarrite nella propria arte, sospinte fuori di sé, incuranti, temerarie, in errore».
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È in questo frangente che entra in gioco il concetto di “decreazione”, neologismo coniato da Simone Weil e dalla sua raccolta di aforismi L’ombra e la grazia (1947). Quest’ultimo consiste nella condizione di disfarsi del proprio io andando «oltre il poter raccontare ciò che [si] sa». Prendendo, dunque, in esame autori della classicità e della contemporaneità, fondendo generi letterari diversi e forme d’arte differenti come il cinema, Carson vuole dimostrare come l’arte sia lo strumento attraverso cui frammentare – o meglio, sublimare – l’io per raggiungere ciò che è ignoto e infinito.
«Decreazione»: il raggiungimento dell’assoluto attraverso l’arte e la sublimazione dell’io
Decreazione rappresenta il prosieguo di un discorso che Anne Carson ha portato avanti con Eros il dolceamaro prima e con Economia dell’imperduto poi. Nel primo caso, l’autrice canadese si è confrontata con il tema dell’erotismo, definendolo qualcosa di dolce e amaro nello stesso tempo: dolce per la comunione fra amanti che genera; amaro poiché transitorio ed effimero. Carson giunge alla conclusione che alla scrittura spetta il compito di coniugare il presente dell’erotismo con l’assenza futura di ciò che si ama, ovvero di veicolare «il desiderio per il desiderio».
Dall’assenza dei corpi e di sentimenti Carson è poi passata all’assenza di parole. In Economia dell’imperduto, l’autrice analizza gli esempi di Simonide di Ceo e Paul Celan, le cui poesie sono essenziali, ma allo stesso tempo nella loro essenzialità nascondono una moltitudine di significati creati da quello che l’autrice definisce “imperduto”, ovvero ciò che di una lingua non è perduto, ovvero gli spazi vuoti e i silenzi che comunicano l’esistenza di qualcosa di grande e incommensurabile.
La decreazione, quindi, altro non è che la somma dell’eros, ovvero il desiderio per il desiderio, il sentimento da cercarsi nella sua assenza, e l’imperduto, vale a dire ciò che non si può esprimere, ma che viene veicolato attraverso l’incapacità stessa di rappresentarlo. In Decreazione, Carson compie difatti un passo in più, mettendo in scena l’assenza dell’io, elemento fondamentale per raffigurare l’assenza e l’inesprimibile. Se nei primi due saggi la presenza dell’autrice è percepibile, in Decreazione la sua presenza si fa sempre più rarefatta, in quanto il suo io lascia spazio a storie e personaggi che dalla classicità alla contemporanea cercano come lei di afferrare l’ignoto sublimando l’io attraverso la propria arte come fa la stessa autrice.
L’eclissi come rovesciamento della totalità
La trattazione del rapporto fra sublime e assoluto in Decreazione passa attraverso il cinema di Michelangelo Antonioni, che secondo Carson è espressione di ciò che afferma Longino, ovvero è la quintessenza del sublime come eco di una grande mente. L’artista, qui rappresentato dal regista, altro non fa che produrre un’eco dell’infinito, un continuo tentativo di raggiungere l’ignoto, come dimostrano questi versi scritti da Carson che immaginano un dialogo fra Kant e Monica Vitti:
La Cosa in sé era irraggiungibile, insormontabile.
Lei persiste nel tentativo di lasciare la stanza.
Né la cosa in sé potrebbe essere rappresentata.
Le tende sono tirate, la stanza è piena di oggetti, qua e là
le lampade sono accese,
chissà che ora è della notte? I suoi capelli si muovono lentamente.
Tuttavia, attraverso il fallimento stesso
della sua rappresentazione, la Cosa in sé
può essere iscritta tra i fenomeni.
Lei solleva un pezzo di carta, lo riposa.
Questi versi ci introducono a quello che è il passo successivo che compie Carson, ovvero la rappresentazione dell’eclissi – L’eclisse, fra le altre cose, è anche il film del 1962 di Antonioni con la summenzionata Vitti come protagonista. Se è impossibile rappresentare la cosa in sé, ovvero la totalità, paradossalmente ciò diventa possibile attraverso la raffigurazione del suo contrario, ovvero il suo annullamento, simboleggiato dall’eclisse, che nella sovrapposizione fra il sole e la luna cancella la totalità della luce solare che nel suo essere incolore è al contempo presente. La totalità, scrive Carson, «è un fenomeno che può capovolgere i rapporti», rendendo l’assenza e il vuoto una presenza.
Il fallimento della rappresentazione della cosa in sé e il senso di finitezza che veicola ricorda l’imperduto a cui già si è accennato, in quanto il vuoto e il rovesciamento della totalità rappresentano la totalità stessa attraverso l’annullamento della realtà. Non è un caso, inoltre, che Carson citi Samuel Beckett, il cui teatro arriva a ridurre sempre più le parole e la corporeità per esprimere l’inesprimibile, e il quale in un’intervista del 1961, citata dall’autrice, affermò che ‘dove abbiamo sia l’oscurità che la luce, abbiamo anche l’inesplicabile’. L’inesprimibile si esprime, per tanto, attraverso lo scarto che si crea fra oscurità e luce, fra la realtà e la sua negazione.
La dissoluzione dell’io
La realtà che Carson intende annullare per rappresentare l’assoluto altro non è che l’io. L’autrice prende in esame tre scrittrici che hanno cercato di dimostrare questo annullamento dell’io come strumento per raggiungere l’assoluto: Simone Weil, Saffo e Margherita Porete. Carson inizia questa ultima analisi con il frammento 31 di Saffo, di cui nota quanto segue:
Purtroppo non arriviamo alla fine, perché la poesia si interrompe. Tuttavia davanti ai nostri occhi Saffo comincia a volgersi in una certa direzione, verso questo fine irraggiungibile. Vediamo i suoi sensi svuotarsi, il suo Essere scagliato lontano dal proprio centro, che rimane a osservarla come se fosse erba o morta.
La forma frammentaria e non finita del componimento induce Carson a concludere che l’amore e l’assoluto ci porta a spogliarci del proprio io, arrivando, così, a una sorta di condizione di povertà. Quest’ultima condizione è ciò che dovrebbe portare l’io verso la quintessenza dell’assoluto, vale a dire Dio. Margherita Porete porta all’estremo quanto tematizzato da Saffo, in quanto la scrittura per lei è un modo di annichilire l’io per raggiungere la comunione con Dio. Porete conia il concetto di “Lontano-vicino” per esprimere l’avvicinamento a Dio, ovvero a ciò che è lontano e inesprimibile, attraverso l’annullamento di ciò che ci è prossimo, ovvero il nostro io.
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In questo contesto si inserisce allora Simone Weil, che afferma come «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza». Carson comprende, di conseguenza, che «chi scrive dovrà invocare un Dio che arriva portando con sé la propria assenza, un Dio la cui lontananza è più vicina. È un movimento impossibile, possibile solo mediante la scrittura». La scrittura deve rappresentare l’assoluto attraverso la raffigurazione della sua assenza, che sia l’eclisse oppure la non finitezza dei versi di Saffo. Solo così l’io si avvicina all’assoluto: sublimandosi nelle parole, scomparendo ed eclissandosi nel nulla che, come l’imperduto, è allo stesso tempo qualcosa. Qualcosa di irraggiungibile, ma pur sempre presente.
La decreazione di un io imperduto
Rispetto al resto della produzione di Anne Carson, Decreazione (acquista) è forse l’opera più complessa di tutte: per la sua commistione di generi letterari – saggio accademico, poesia, dramma teatrale –, ma soprattutto per il tema rappresentato, ovvero l’assoluto, un concetto inafferrabile e difficile da catturare attraverso la parola scritta. Tuttavia, Carson si rivela essere ancora una volta un’abile indagatrice dell’assoluto attraverso il dialogo che intesse con autori antichi e contemporanei, dimostrando come l’infinito si trovi nel non detto, nell’assenza e nella dissoluzione dell’io.
La decreazione è il disfacimento della creatura che è in noi, quella creatura racchiusa nell’io e definita dall’io. Ma per disfarsi dell’io bisogna passare attraverso l’io, fin dentro alla sua stessa definizione. Non possiamo cominciare diversamente. Questa è la pergamena su cui Dio scrive le sue lezioni, come dice Margherita Porete.
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