Il 1° gennaio 1993 il famoso divorzio di velluto separa Slovacchia e Repubblica Ceca, segnando la fine della Cecoslovacchia. «Le due non si erano mai veramente amalgamate» riporta Jana Karšaiová nel suo primo romanzo. Proposto al Premio Strega 2022 da Gad Lerner, secondo cui «vi si trova inscritto il fascino del nuovo romanzo europeo», Divorzio di velluto (Feltrinelli, 2022)(acquista) porta il titolo di una divisione politica che riflette la separazione tra la protagonista e il marito. Una trovata metaforica che suggerisce quanto i paesi somiglino incredibilmente alle persone.
La protagonista ha quindici anni quando la Storia le insegna che certe spaccature sono inevitabili, ma questo non la rende di certo più temprata quando tocca a lei ricominciare da capo. Quello di Jana Karšaiová è un racconto che ha lo sguardo rivolto verso il passato, un’indagine utile a interrogare il presente e correggere un nuovo futuro.
«Divorzio di velluto»: la trama
È la vigilia di Natale, ma anche quella di una nuova dolorosa scissione. Tornata da Praga, dove vive con il marito ceco Eugen, Katrína ora si trova a Bratislava per trascorrere le feste in famiglia. La vistosa assenza di lui scatena una mitragliata di domande che cerca di schivare come farebbe con dei proiettili. Potrebbe rispondere confessando che Eugen l’ha mollata con un biglietto lasciato sul tavolo della cucina e aggiungere poi che l’ha visto con un’altra. Raccontare certi fatti però, ne sigillerebbe la cruda accettazione, e Katrína non è ancora pronta per questo. Mentre affida a un futuro prossimo il momento della verità, si muove per la gelida Dúbrava, quartiere di Bratislava, rilevando cosa è cambiato e cosa invece è rimasto uguale da quando si è trasferita a Praga.
Dúbrava sembrava un paesaggio lunare con monoliti grigi, lampioni e macchine parcheggiate lungo i crateri. Questo non era cambiato, il paese nella sua frenetica corsa verso la modernità partoriva sé stesso continuamente, ma poi di notte ritornava ad avere le sagome di sempre.
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Tra le costanti ci sono anche l’annoso conflitto con la madre, l’alcolismo del padre e la grande mancanza della sorella Dora, trasferita da tempo negli Stati Uniti. Una rimpatriata con le vecchie compagne di università offre a Katarína la possibilità di riallacciare i rapporti con la sua vecchia amica Viera, slovacca di origine e trapiantata a Verona. Katarína non sa ancora che sarà la stessa Italia ad accogliere anche lei, una volta avvenuto il big bang.
Era tutto molto veloce, ma quando si arriva ad un bivio, la vita sceglie e Katarína sapeva che poteva solo seguirla. Le parole non dette, le attenzioni mancate sono quelle a far maturare le decisioni. Sembrano brusche, le scelte, ma solo perché arrivano addosso sul momento: una punta dell’iceberg che finalmente si vede.
L’inevitabile confronto finale con Eugen vede lo sgretolarsi degli ultimi avanzi della loro storia. Forse anche loro, come Slovacchia e Repubblica Ceca, non si erano mai amalgamati per bene. In più, la diffidenza verso i cechi era sempre stata un profetico leitmotiv famigliare che Katarína non si era mai scrollata del tutto di dosso. Tuttavia la vita ormai ha deciso, il big bang di velluto è avvenuto e, a prescindere dalla sua tipologia, implica una lunga e faticosa rinascita.
La questione della lingua
Jana Karšaiová, nata a Bratislava nel 1978, scrive in una lingua che non è la sua. L’italiano le permette di pensare in un altro modo, le dà uno sguardo e un distacco che altrimenti non avrebbe. «Lo slovacco mi veste stretta, in italiano mi sento più libera, ma anche più esposta» aggiunge l’autrice. L’utilizzo di una lingua diversa sembra quanto di più appropriato per narrare la storia di chi, come Katarína, deve ricominciare una nuova vita. Una scelta linguistica, quella della scrittrice, che porta con sé il rimorso di aver tradito tutti. Non nasconde che spesso la madre le rinfaccia questo fatto.
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Allo stesso modo, anche i personaggi del suo romanzo d’esordio sono sensibili all’argomento. Una pronuncia fuori posto è infatti capace di far scattare l’allarme tradimento: «Ha pronunciato il nome della loro città natale come fanno gli stranieri: con la t che rimane invariata, non addolcita dalla vocale che segue», oppure «l’ha detto in italiano, come se ormai non pensasse più nella loro lingua, Katarína l’aveva notato già a Bratislava, quando si erano viste al bar. Pareva che per lei fosse lo slovacco la lingua straniera».
È la lingua a parlare dei personaggi, modulandosi a seconda del momento e del loro umore. La lingua qualifica e spesso divide, esplicita da che parte si sta e che cosa si è diventati.
Passati crepati
Insieme ai ricordi di una Bratislava sotto il governo comunista, il passato di Katarína ed Eugen si inserisce nella trama senza preavviso. Prepotente come i pensieri che d’un tratto ti travolgono mentre sei impegnato a fare altro. Si va dal loro primo incontro fino al matrimonio, per poi giungere alla spaccatura con cui deve ancora fare veramente i conti. Katarína non è la sola a dover rifiorire tra le crepe. La trama ospita anche i flashback della storia d’amore tra l’amica Viera e una professoressa, finita anch’essa nel peggiore dei modi.
Una narrazione intima ed efficace teletrasporta il lettore nel pallido mondo esteuropeo facendogli scorgere i colori di ogni cosa. Quello di Jana Karšaiová è uno sguardo a cui non sfugge niente, che sa trasformare in immagini affascinanti anche le azioni più scontate. Se questa è la carica espressiva che ottiene da una lingua che ha preso in prestito, ci si chiede cosa potrebbe fare nella sua lingua madre. Ma in fondo, come lei stessa ha dichiarato, è in italiano che si sente davvero libera.
Serena Zamparutti
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