Sono tanti i luoghi letterari che hanno fatto la storia della letteratura consegnandoci storie indimenticabili. Pensiamo a Macondo di Gabriel García Márquez, a Yoknapatawpha di William Faulkner, fino ai più contemporanei Holt di Kent Haruf e Bois Sauvage di Jesmyn Ward. Luoghi immaginari nati da luoghi reali che in un tempo e una realtà altra raccontano storie molto attuali.
Nella letteratura italiana ce n’è uno di cui poco si parla, ma la cui invenzione resta formidabile per l’intreccio fra atmosfere medievali e un contesto anni Trenta/Quaranta. Questo luogo è Nofi, nato dalla penna di Domenico Rea, di cui a trent’anni di distanza recentemente Bompiani ha ripubblicato Ninfa plebea, vincitore del Premio Strega nel 1993.
La trama di «Ninfa plebea»
Celebre soprattutto per l’omonima trasposizione cinematografica di Lina Wertmüller, Ninfa plebea è ambientato a Nofi – paese della Campania che i critici riconducono spesso a Nocera Inferiore, dove Rea è cresciuto – fra gli inizi degli anni Trenta e il 1945, con la fine della Seconda Guerra Mondiale. La protagonista è Miluzza, un’adolescente che «per un punto non fu principessa» la cui sensualità e innocenza sembrano appartenere alle donne ritratte da Giambattista Basile.
Miluzza vive nel Bùvero, uno dei tanti bassi che popolano Nofi, «un luogo popolare, ma privilegiato». Assieme a lei, i genitori Giacchino e Nunziata e il nonno Fafele. La protagonista è stata «educata pressappoco come un pollo da cortile, senza troppe attenzioni e carezze» ed è abituata fin dall’inizio ad aiutare la famiglia nelle faccende di casa. La ragazza, però, si ritroverà presto sola e abbandonata – ed è l’unica anticipazione che si darà – dopo la morte dei suoi genitori e del nonno, in un’educazione sentimentale all’interno di un paese il cui puzzo pervade l’atmosfera, e dove a una ragazza bella ma povera come lei sembra spettare solo l’inferno.
«Ninfa plebea»: una fiaba neorealista
Per definire Ninfa plebea, vorremmo osare a coniare la seguente espressione: «fiaba neorealista». “Neorealista”, perché il contesto è quello del fascismo, della Seconda Guerra Mondiale e della Liberazione. Un neorealismo, però, senza eroi, ma barbarico, degli umili e dei vinti, come quello descritto da Fenoglio ne I ventitre giorni della città di Alba. “Fiaba”, invece, perché a livello di intreccio, linguaggio e stile deve molto alle letture giovanili di Domenico Rea, fra cui spiccano Boccaccio, Basile, Manzoni e Leopardi.
Questo aspetto fiabesco è da rintracciarsi in una scrittura dal forte impatto visivo – si pensi alla vivida descrizione del puzzo del Bùvero –, in un lessico dalla patina ottocentesca e in uno stile che ricorre molto all’accumulo e all’elenco di dettagli. Esso viene ribadito soprattutto da Antonio Franchini nella sua postfazione alla precedente edizione degli Oscar Mondadori. In questo scritto, lo scrittore napoletano afferma che la fedeltà di Rea al contesto di Nofi «non fosse ispirata da esigenze di pura e semplice rappresentazione fotografica e tanto meno di denuncia sociale, ma rispondesse a un disegno simbolico, metaforico e allusivo». Franchini, inoltre, scrive che:
La vena di realismo presente in Rea era invece di ascendenza addirittura trecentesca, toscana, boccaccesca, e poi, di secolo in secolo, attraverso Masuccio Salernitano e Matteo Bandello ripercorreva la grande tradizione italiana del genere novella. Passava per il prediletto Rabelais irrobustendosi ancora nel corpo e nella sua esaltazione. Arrivava fino al seicento, abbeverandosi a sazietà alle pagine di Giambattista Basile, che con il suo “Pentamerone” è la fonte di tutta la favolistica europea, e qui si fermava. […] La particolarità di Rea, l’originalità del suo mondo si devono in egual misura al suo spirito antimoderno e alla sua formazione da autodidatta nella quale rientrano anche pagine di mistici, di cronisti, di visionari ed eretici, e filastrocche popolari, canti, antichi motti e detti, in una commistione continua di alto e di basso, di umile e di sublime, di miseria e di nobiltà.
Quanto detto da Franchini trova conferma anche nella lettera di Antonella Ossorio a Miluzza posta come introduzione della nuova edizione Bompiani del romanzo. Essa descrive Nofi come «una bolla spazio-temporale che osserva regole tutte sue e all’impasto tra quotidiano e una certa dose di fantastico non può né intende rinunciare» animata da «un immaginario dal carattere contadino e fiabesco simile a […] quello del Cunto de li cunti di Giambattista Basile». Ossorio arriva a paragonarla a Macondo, in quanto anche la città immaginata da García Márquez è animata da un immaginario simil medievale sospeso nel tempo.
Nofi, la Macondo campana
Parlare di Ninfa plebea e di Miluzza vuol dire confrontarsi con il contesto di Nofi. Quest’ultima costituisce un’ambientazione da fiaba, sospesa nel tempo, un Medioevo contemporaneo, come era «il mondo antico» in cui Rea diceva di esser nato in una sua raccolta poetica del 1965. Nofi è composta da «tanti grossi borghi popolari, che si sarebbero potuti considerare veri e propri quartieri», dove «cani e gatti, asini e cavalli, tori e vacche, lioni e pantere» e «papi e re, regine e principesse, duchi e duchesse» convivono fra loro. Un mondo gerarchizzato dove i più umili sono condannati al puzzo del basso:
Del resto, la madre le diceva sempre [a Miluzza] che bisogna sopportare con umiltà il proprio puzzo perché ognuno di noi è come una casarella o un basso: gli occhi ci sono per vedere chi viene a cercarti, con la bocca si chiama, si parla, si canta, si ama, si bacia, si litiga e si bestemmia, le mammelle sono le sedie del salotto, che è il ventre, e in fondo al corpo, come in fondo al basso, c’è il cesso che puzza proprio perché la gente non se ne vada di capa e si ricordi di essere animale.
Questa descrizione medievale è dovuta al fatto che, come scrive Franchini, Rea considera il periodo tra gli anni Trenta e Quaranta «e gli stili di vita che gli erano propri come un vero e proprio “medioevo”». Le superstizioni della chiesa, il chiacchiericcio e le maldicenze delle persone piuttosto che le rivalità fra famiglie come gli Altieri e i Fiorio fanno di Nofi un Medioevo moderno. Qui, il puzzo e il profumo dei fiori si confondono e il basso sembra una catacomba in cui si ritrovano seppelliti i “plebei” come Miluzza.
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Nonostante tutto, nella sua veracità e nel suo puzzo Nofi viene nobilitata in confronto a Napoli. Quest’ultima è descritta come «un pozzo di nascondigli per fare le cose e per non far sapere niente a nessuno», le cui strade chilometriche confondono Miluzza, al punto da farle pensare che sia «una città terribile, non per persone minute come lei».
Miluzza, la ninfa plebea
Miluzza, quindi, assume su di sé le caratteristiche principali delle protagoniste di fiabe come Cappuccetto Rosso piuttosto che la Piccola Fiammiferaia. La protagonista è sola in un mondo che la inghiotte e resta indifferente alla sua miseria e povertà. Sola a quel puzzo che «lasciato dagli altri e da se stessa che finì per identificarlo come l’espressione stessa del suo corpo che bisognava accettare e che si finiva con l’annusare».
Il puzzo che avvolge Miluzza sembra condannarla a essere sfruttata dagli altri. Don Aspreno e il Professor Sborio e Don Peppe approfittano dell’innocenza della ragazza per abusare di lei e usarla per sfogare le proprie pulsioni sessuali. Sembra impossibile, dunque, come dice Mastro Fefele, il nonno della protagonista, «salvarla dalla malvagità del mondo». Non solo perché considerata “plebea”, ma anche perché su di lei pende quella che il padre Giacchino ha definito, in relazione all’appetito sessuale della moglie, «scandalo del demonio nel terzo scompartimento».
La protagonista, però, non è cattiva e opportunista come Nofi vuole farla sembrare. Miluzza è semplicemente vittima delle circostanze. Anche se sembra approfittarsi della relazione con Don Peppe, al Trocadero di Napoli si sente «sola e insignificante». Come tutte le fiabe, però, anche quella “neorealista” di Ninfa plebea si risolve in maniera provvidenziale. L’arrivo della guerra, infatti, giunge sulla scena come segno di una provvidenza di manzoniana memoria, che ripulisce Nofi della sua cattiveria e nobilita Miluzza, premiando la sua innocenza e dandole finalmente un amore sincero che la salva dalla propria miseria.
«Ninfa plebea»: un successo lungo trent’anni
A trent’anni di distanza dalla prima edizione, Bompiani riporta in libreria Ninfa plebea (acquista), un breve e piccolo capolavoro che racchiude in sé la tradizione linguistica e popolare del nostro paese. Fondendo Basile, Manzoni, Leopardi e Boccaccio, Domenico Rea ha scritto un piccolo capolavoro senza tempo. Col suo Medioevo contemporaneo Nofi è una Macondo italiana capace di dare dignità agli umili come Miluzza, che con la propria innocenza e attaccamento a valori come la famiglia e l’amore è riuscita a sopravvivere alle difficoltà.
Nofi era un paese in cui la gente si ribellava perché non soltanto i fiori ma anche gli alberi si spingevano fin dentro le case. Le foglie puzzavano – antico segno di Nofi – ma erbe e fiori, che s’inerpicavano sui muri, riuscivano a mitigare il fetore delle fogne e a primavera il profumo giungeva a ondate come un tremolar di musiche. Non c’era strada che non confinasse con la campagna che, oltre a essere fertile di frutti ed erbe mangerecci, aveva seminati spontanei di fiori, i più semplici, i più strani e i più belli. Arrivare alla stazione delle FF.SS. era come andare verso una fioriera talmente i muri dell’edificio erano ricoperti di spallate di glicine. Perciò Miluzza non distingueva fra puzze e profumi; e quando cominciò ad accompagnare il nonno per vender pizze al mercato generale, fra i suoi piaceri c’era quello di sentirsi sollevata dalla lieve, ma possente forza degli odori.
Fonti bibliografiche
Antonio Franchini, Postfazione a Ninfa plebea, Mondadori, Milano, 1994
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