Nel 1959, vent’anni dopo la pubblicazione del suo libro, lo sceneggiatore americano Dalton Trumbo rifletteva sul valore simbolico della sua opera: «E Johnny prese il fucile ebbe un significato diverso per tre guerre diverse. Il suo attuale significato è quello che ciascun lettore intende dargli, e ogni lettore è profondamente diverso da qualsiasi altro lettore, e per di più ognuno nel suo intimo cambia e si trasforma.»
Nel nostro presente, messo continuamente alla prova dalla distruzione dei conflitti armati, questa storia torna a essere più attuale che mai.
Una travagliata storia editoriale
Due giorni dopo l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, nelle librerie americane appare E Johnny prese il fucile. Fin da subito, si presenta come uno spietato apologo, a cui riesce impossibile rispondere con indifferenza. Le parole di Trumbo scavano a fondo l’orrore della guerra e colpiscono, violente come granate, l’animo del lettore. E Johnny prese il fucile (acquista) si trasforma in un disperato inno di pace fuori dal tempo: scompare e appare nelle librerie ad ogni nuovo conflitto armato che coinvolge gli Stati Uniti.
Esaltato prima dalla destra come monito dell’anti-interventismo contro Hitler, poi dalla sinistra come manifesto del pacifismo durante la guerra del Vietnam, il libro, sospeso tra censura e riedizione, sopravvive alla sua travagliata storia editoriale. Nel 1971, tramutato in una sceneggiatura, viene trasportato sul grande schermo in una pellicola cruda e controversa, diretta dal suo stesso autore Trumbo.
«Un germe del niente»
La storia ruota attorno a Joe Bonham, un ragazzo americano chiamato dal suo paese ad arruolarsi nel primo conflitto mondiale. Il giovane lotta strenuamente per la libertà del suo paese, scopre la brutalità dell’uomo e conosce da vicino la morte, senza mai abbandonarcisi. Proprio nell’ultimo giorno di combattimento, viene devastato da un colpo di cannone che lo priva di gambe, braccia, vista, olfatto, udito e parola. Di Joe non rimane altro che un tronco e una mente pensante, “un germe del niente” come si autodefinisce.
La memoria rappresenta il suo ultimo appiglio alla vita. Tenuto in vita da un “accanimento terapeutico”, ingessato nell’impossibilità di morire, si rifugia nell’universo del ricordo. Lì ritrova il passato di provincia, il calore della famiglia, la fiamma del primo e unico amore. Lì, dove sogno e ricordo si mescolano, Joe scopre un rifugio sicuro, doloroso, ma vitale.
Ma era ormai così tagliato fuori da loro che anche se fossero stati lì accanto al letto era come se fossero lontani diecimila miglia.
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Lui voleva le cose che loro davano per scontate le cose che nessuno avrebbe potuto dargli. Voglio occhi per vedere. Due occhi per vedere la luce del sole e della luna e le montagne azzurrine e i grandi alberi e le piccole formiche e le case dove vive la gente e i fiori che sbocciano al mattino e la neve che si posa sulla terra e i fiumi che scorrono e i treni che vanno e vengono e la gente che cammina e un cucciolo che gioca con una vecchia scarpa e si preoccupa e ringhia e si tira indietro si acciglia dimena la coda e prende la scarpa molto sul serio.
Voleva un naso per sentire l’odore della pioggia e della legna che brucia e del cibo che cuoce e il leggero profumo che rimane nell’aria quando passa una ragazza. Voleva una bocca per mangiare chiacchierare ridere assaggiare e baciare. Voleva un paio di braccia e un paio di gambe per poter lavorare e camminare come tutti gli uomini come tutte le creature viventi. Che cosa voleva che cosa poteva volere che cosa c’era al mondo che potessero dargli?
Joe, legato al suo letto “di morte”, intraprende una battaglia personale contro la brutale realtà che lo ha ridotto «la cosa più vicina a un morto che ci fosse sulla terra». Decide di tramutarsi nel simbolo vivente di tutto l’orrore guerra, concentrata «in una massa di carne ossa e capelli.»
Il suo incessante monologo interiore segue un flusso narrativo privo di punteggiatura, suddiviso solamente in due parti: I morti e I vivi, simboliche fasi del suo ritorno alla vita. La mente è l’unico strumento che gli rimane per lanciare il suo messaggio al mondo: non c’è nulla di più prezioso della vita.
«Non c’è una parola che valga la vita»
Cosa significa libertà? È forse soltanto uno strumento retorico per convincere milioni di persone a mettere a rischio la propria vita? Vale la pena rinunciare alla nostra esistenza, in nome di un ideale di cui non abbiamo certezza? «Non c’è una parola che valga la vita», replica il Joe di Trumbo nella sua testimonianza senza tempo: un monito che, ancora oggi, continua a suscitare interrogativi e risposte contrastanti.
Non c’è niente di nobile nel morire. Nemmeno quando si muore per l’onore. Nemmeno quando si muore come il più grande eroe di tutti i tempi. Nemmeno se sei così grande che il tuo nome non verrà mai più scordato e chi è così grande?
La cosa più importante è la vostra vita o piccoli uomini. Da morti non servite a niente se non per i discorsi. Non lasciatevi più ingannare. Non ascoltateli più quando vengono a battervi sulla spalla e vi dicono andiamo dobbiamo combattere per la libertà o per una qualsiasi altra parola, ce l’hanno sempre una parola.
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