Imparare a convivere con la complessità, rifiutando ogni integralismo: è questa la lezione che un Edgar Morin appena divenuto centenario ci lascia nel suo potente testamento spirituale Lezioni da un secolo di vita, recentemente tradotto da Mimesis per la collana a cura di Mauro Ceruti, «La sfida della complessità». In un’autobiografia che nello stile ricorda i Saggi di Michel de Montaigne ripercorriamo il “suo” secolo; un Novecento foriero di tragedie e di possibilità inedite che il grande intellettuale francese ha attraversato cogliendone le sfide e i limiti.
Una vita plurale
Chi è Edgar Morin? Un «figlio di Montaigne e di Spinoza» che è «francese di origine ebraico sefardita, parzialmente italiano e spagnolo, ampiamente mediterraneo, europeo culturale, cittadino del mondo, figlio della Terra-Patria». Uno e molteplice, dunque, perché la nostra essenza è sempre complessa (unitas multiplex), perché – ci insegna lui stesso – è solo grazie «al rifiuto di una identità monolitica e riduttiva» che possiamo rendere migliori le relazioni tra esseri umani e aprirci all’alterità e alla sua irriducibilità.
In un testo che si sviluppa tra riflessioni e ricordi personali resta una costante attenzione per una complessità che ci permetta di andare oltre unilateralismi e dogmatismi. Ed è proprio l’interconnessione di tutte le cose che ha reso il filosofo francese diffidente verso facili ideologie e l’ha spinto a «restare sempre studente»; grazie a uno sguardo laico e lucido sulla realtà, alla capacità di lasciarsi stupire dalla forza degli eventi di cui è stato testimone e protagonista.
Uno sguardo lungimirante
Già con L’anno I dell’era ecologica (1972) Edgar Morin coglie appieno cosa significa la denuncia dei limiti dello sviluppo del rapporto Meadows commissionato dal Club di Roma e pubblicato nello stesso anno; così come, di fronte a uno strutturalismo economico egemone non solo in Francia, è tra i pochi a comprendere quanto miti e immaginario siano «parte costitutiva della realtà umana»: e così, per “superare Marx” intraprende la via del pensiero complesso da cui uscirà Il metodo, poderosa ricerca in sei volumi che lega le discipline più diverse ed è così capace di abbracciare la complessità, ovvero le «relazioni indissolubili tra componenti differenti».
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Un’apertura al nuovo che l’intellettuale francese ha sempre mantenuto, come quando sulle colonne di «Le Monde» raccontò il Sessantotto, dandone delle interpretazioni sociologiche più suggestive. La cifra del movimento globale non è politica ma consiste nell’“essere breccia”. Nell’essere riuscito cioè ad aprire spazi ad altre trasformazioni sociali e culturali, come il femminismo e l’ambientalismo.
Contro la cecità volontaria
Ripercorrendo la sua lunga esperienza, non è dunque un caso che Morin ritenga i suoi due più grandi errori siano stati causati da una “cecità volontaria”: la scelta dell’appeasement, della pace a tutti i costi con Hitler, e l’adesione al comunismo, dovuti nel suo racconto allo stesso motivo, al non essere riuscito a cogliere novità e specificità dei due inediti totalitarismi. Sarà solo di fronte ai processi farsa dell’URSS, che gli si mostra il «carattere mistico, religioso del Partito», capace di trasformare «esseri inizialmente bonari, tolleranti in ottusi fanatici». Così, a differenza di chi pensava che «se non ci fosse il Partito aprirei il rubinetto del gas», Edgar Morin sceglie una vita anticonformista che non è mai di maniera, ma è semplicemente la “devianza” a cui porta inevitabilmente, come scrive, un’«autonomia della mente», un libero pensiero a cui non è disposto a rinunciare.
Non sarà mai indolore: l’Autocritica verso la sua giovanile adesione costerà a Morin calunnie e rottura di grandi amicizie, ma a muovere il grande intellettuale francese resterà sempre il radicale principio secondo cui «piuttosto che la dottrina che risponde a tutto, la complessità che mette in questione tutto», come scrive nel capitolo Memento, l’elenco delle cose imparate nella sua lunga vita, tra cui spicca una delle sue cifre, «attenditi l’inatteso».
Imparare dall’errore
Gli sbagli fatti sono stati generativi, però, riconosce egli stesso. Solo attraverso l’esperienza del comunismo ha potuto comprendere come si diventa fanatici e divenirne così allergico. D’altronde, altra cosa che ha imparato, «il principio di precauzione ha senso solo se è associato a un principio di rischio, indispensabile all’azione e all’innovazione».
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È per questo che la sua autobiografia (acquista) si conclude ragionando intorno all’errore e alla sua genesi, perché solo avere il coraggio di sbagliare avventurarsi nell’ignoto e nell’incertezza può portare al nuovo: l’“igiene mentale” sempre necessaria, ci insegna, è moltiplicare le fonti, i riferimenti, le idee, in una parola lavorare a favore della complessità, per imparare dagli errori e non cadere nel più grave di tutti, l’autoinganno, il finire per credere alle proprie stesse bugie.
L’anno dei maestri
A ripercorrere questo “suo” Novecento, viene da chiedersi se non vi sia qualcosa di speciale nell’anno di nascita di Edagr Morin, un 1921 in comune con figure del calibro del poeta Andrea Zanzotto, dell’intellettuale Mario Rigoni Stern, dell’ambientalista Laura Conti.
Nascere negli anni Venti vuol dire crescere a “pane e fascismo”; essere la generazione che può dire, usando le parole dell’intellettuale francese, che «la guerra fu dichiarata l’anno stesso in cui entrai all’università». Una generazione che può affermare di aver visto l’Europa sprofondare nell’abisso. Ciò vuol dire avere l’età giusta per poter vivere da giovane l’enorme esperienza della Resistenza; poter osservare da adulto prima il Sessantotto, poi la fine di un mondo con la caduta del Muro di Berlino; e, infine, per i più longevi, assistere al caos dei nostri tempi. Vite ed esperienze ricchissime e quasi inimmaginabili, di cui oggi fatichiamo a soppesare complessità e difficoltà. L’anno dei maestri: forse è questo l’insegnamento più bello e inatteso di un’autobiografia su un secolo di vita.
Luca Cirese
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