La penna di Eugenio Montale è fautrice di una poesia gravata da – nonché perfettamente in grado di sopportare – un peso emblematico: farsi voce delle inquietudini di un tempo sospeso, reso incerto dalle attese del conflitto mondiale, poi scalcinato sotto i colpi della guerra e infine costretto a tirare le fila entro le difficoltà della ripresa. Su quali siano le ispirazioni, gli appigli e le suggestioni a concorrere nella genesi di un simile corpus è già stato speso un ragguardevole numero di parole, ma i territori e i luoghi che fecero da sfondo alla giovinezza del poeta sono ancora lì: passibili di un’ulteriore istantanea.
Orientando il focus su Meriggiare pallido e assorto (1916), è possibile attestare come già il «primo frammento» montaliano affondi le radici nel suolo riarso delle Cinque Terre, aderendo con ostinazione al panorama «petroso» che ha accompagnato l’esistenza del poeta. Genovese di nascita, Eugenio Montale cresce trascorrendo le estati nella casa di famiglia, costruita dal padre a Monterosso. All’acutezza propria del capoluogo ligure, concorre dunque in lui il prodotto del tempo speso nella zona cinqueterrina: un’asprezza attinta dalla scabrosità dalla terra, dalla fitta vegetazione battuta dal sole e investita dall’afa del meriggio. È una terra che «scotta», costeggiata da un muro altrettanto «rovente», e molti sono i mezzi adoperati per trasporlo in poesia.
Una terra predata dalla lingua
Le tre strofe iniziali del componimento, e dunque a monte dell’intera produzione letteraria, affidano l’apertura a quella che è innanzitutto – a livello minimo di articolazione testuale, prima ancora di approdare nella figurazione allegorica – una descrizione paesaggistica. Specificamente, una descrizione sia di quell’orto «limitato dal lato del torrente da un alto muro a calce», compreso tra i giardini di villa Montale, sia del paesaggio che sostare in quell’orto apre alla vista, alla contemplazione. In questo senso, un riscontro lessicale conferma la volontà montaliana di aderire al territorio «petroso» e «aspro» della sua giovinezza, tramite la scelta di una lingua fortemente mimetica, in grado di rendere l’aridità propria delle Cinque Terre.
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Il tutto è tradotto per mezzo di un accumulo di suoni duri, molti dei quali collocati in posizione forte, all’estremo del verso. Non sono trascurabili, difatti, le rime «aspre e chiocce» di derivazione dantesca, in particolare del Dante comico: sterpi: serpi; formiche: biche; e la rima scricchi: picchi. Altra menzione necessaria riguarda l’insistenza sui suoni prodotti dagli incontri consonantici, al fine di accompagnare una condizione esistenziale sospesa tra prigionia e disgregazione: uno fra tutti, i tremuli scricchi delle cicale, altrove indicate dallo stesso Montale come gusci di ricordi, vuoti, estremamente frangibili e facili alla definitiva caduta.
Le Cinque Terre: luoghi come specchio dell’esistenza
Paesaggio «specchio» dell’anima e sfondo emblematico degli Ossi di Seppia (acquista), il territorio ligure è non casualmente presentato dal poeta, tra le righe dell’Intervista immaginaria, come «preda» privilegiata di Meriggiare pallido e assorto: «Ma nel ’16 avevo già composto il primo frammento tout entier à sa proie attaché: Meriggiare pallido e assorto […]. La preda era, s’intende, il mio paesaggio».
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Per trascendere dall’esistenza personale e approdare a un grado più profondo di universalità, occorre catturarlo, processarlo e quindi fissarlo su carta così come la mente l’ha figurato dentro di sé: «immutabile». Nella prosa monterossina Dov’era il tennis…, il possessivo affiancato al concetto di paesaggio ritorna, ancora una volta evidenziato dall’uso del corsivo.
È curioso pensare che ognuno di noi ha un paese come questo, e sia pure diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio, immutabile; è curioso che l’ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così impossibile a scancellarsi.
L’evidenza è che fosse già forte nel poeta appena ventenne l’idea di trasporre in poesia la casa delle sue estati lontane, nonché di conferire alla sua terra una posizione di spicco: affidandole i versi iniziali di quel «primo frammento», affidatale è anche l’apertura di tutta una visione poetica.
Le radici di una visione poetica
D’altronde, è grazie al sole abbagliante delle Cinque terre che l’io del poeta viene investito, nella strofa conclusiva del componimento, da quella «triste meraviglia» che è l’aprire epifanicamente gli occhi su una condizione esistenziale incerta, prigioniera di una realtà impossibile da comprendere appieno, ma finalmente divenuta oggetto d’indagine.
Meriggiare pallido e assorto testimonia la volontà di tradurre in poesia un ordine fisico «lento a filtrare», ma impossibile, una volta processato, alla cancellazione o alla modifica. Una terra che non si limita ad accogliere passivamente, ma fornisce il punto d’avvio per scandagliare tanto la realtà quanto la percezione interiore che il poeta ha di essa. Un paesaggio anfibologico, al pari della lingua impiegata per fissarlo: preda della poesia dopo averla predata a sua volta.
Immagine in evidenza: Monterosso al mare.
Fonte e Autore: Di Lee & Chantelle McArthur from SMiths, Bermuda – A beach in Monterosso, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15084905
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