Considerato da alcuni l’erede spirituale di autori del calibro di Majakovskij e Pasternak, Evgenij Evtušenko è stato il maggiore poeta russo del secondo dopo guerra. Convinto anti-stalinista, Evtušenko è stato il primo scrittore a recitare i suoi versi oltre la Cortina di ferro.
Nei decenni ha firmato decine di opere, spaziando dal romanzo alla poesia, dal teatro alla saggistica. Profondo conoscitore dei classici russi e non solo, il poeta ha avuto un ruolo fondamentale per la diffusione dell’arte poetica essendo anche curatore di diverse antologie in materia. Senza dimenticare, poi, la sua passione per la settima arte che l’ha reso prima regista e poi docente presso l’Università di Tulsa, in Oklahoma.
Il destino del poeta
Un personaggio eclettico, capace di padroneggiare con rara versatilità diverse arti. Tuttavia, ancora oggi – nonostante alcune eccellenti prove –, la fama di Evtušenko è ancora e inevitabilmente legata alla poesia. Moltissime le raccolte pubblicate dagli anni Sessanta in poi, senza contare le apparizioni in antologie – fra tutte si ricorda la celeberrima Nuovi poeti russi a cura di Angelo Maria Ripellino. In particolare, però, Evtušenko rimane sempre attratto dalla forma del poema, scrivendone alcuni che – per qualcuno – rappresentano l’espressione più alta della sua arte. In Italia sono apparsi opere, ad esempio, come Il colombo di Santiago (tradotto come Romanzo in poesia), Mamma e la bomba e Fukù!.
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Nonostante nella maggior parte dei propri lavori emergano in maniera chiara molti elementi autobiografici, Evtušenko riesce a rifuggire ogni elemento tipico del vittimismo o dell’autocompiacimento. In particolare Fukù! risulta un poema-confessione che viene intervallato da alcune prose brevi, simili a pagine di diario. Sul punto Francesco De Napoli commenta come l’autore riesca comunque «ad evitare, grazie ad un impervio equilibrio tra narrato e vissuto, i rischi del protagonismo, poiché a giganteggiare sono le sue testimonianze, scomode e fedeli».
«Fukù!», un poema lungo vent’anni
Edito nel 1989 da Garzanti, Fukù! viene proposto al pubblico italiano con la traduzione di Evelina Pascucci, traduttrice delle maggiori opere del poeta. La collana prescelta per ospitare il volume è quella dei “Coriandoli“, «libri leggeri […] buttati a ravvivare la nostra vita di lettori». Una collezione, per dirla come l’editore, “anarchica”, con l’intento principe di porsi in netto contrasto con la logica dei consumi dei grandi editori.
Sia per forma che per contenuto, Fukù! entra di diritto in questa corrente e impressiona il destinatario fin dalla prima lettura. Nonostante le vicende di Evtušenko siano inevitabilmente ancorate alla sua epoca, il libro riesce nel difficile intento di fornire chiavi di lettura universali.
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Composto a tempi alterni tra il 1963 e il 1985 nelle più svariati parti del mondo, il poema racconta i viaggi e gli incontri dell’autore, tenendo sempre presente la propria infanzia. D’altronde le origini e il sapere atavico hanno sempre esercitato un forte ascendente sulla sua poetica – fra tutti il tema emerge chiaramente nel romanzo Il posto delle bacche. Anche lo stesso titolo dell’opera, per altro, riprende una parola in cui gli schiavi africani delle Antille designavano i morti che in vita avevano esercitato un’influenza negativa.
Quindi un rito apotropaico non solo per allontanare le energie nefaste indirizzate all’individuo, ma anche mirato ad esorcizzare i mali dell’umanità:
E in tutti i mendichi, con i denti d’acciaio
E con le bocche sdentate minacciando l’intruso,
al manifesto voltatisi scoppiarono a ridere
e, come su candele soffiando, ripetevano: “Fukù!”.
L’infanzia perenne
Fukù! si apre con una sequenza in cui il poeta si trova a Santo Domingo, dove sono ancora ben visibili gli effetti dei soprusi e delle angherie perpetrate dai colonizzatori. Un popolo con le proprie radici e identità, costretto ancora una volta a rispondere dei danni della storia. In particolare, Evtušenko ragiona sulla figura di Cristoforo Colombo, ma soprattutto si immedesima nei bambini autoctoni. La loro povertà e la vita contraddistinta dagli stenti gli ricordano inevitabilmente la propria infanzia passata in Russia durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il suo viaggio coincide anche con l’uscita del suo film autobiografico Giardino d’infanzia, in cui racconta la propria giovinezza:
E andai per le strade di Santo Domingo
stringendo al petto l’anno quarantuno,
e tale era in me riapparsa la monellaggine,
come riaffiorerà coltello piantato nel ventre.
Nonostante la sofferenza Evtušenko riconosce come tutta la «propria infanzia di guerra ebbe a credito». Ricorda la bontà della povera gente, pronta a dispensare consigli, supporto e cibo al bambino coinvolto nelle dinamiche guerrafondaie che non riusciva e non poteva comprendere. La riconoscenza del poeta si rinnova di strofa in strofa, restituendo così a parole e ispirazione tutto quello che gli hanno donato: «Nessuno si aspettava che tutto questo io lo restituissi, e io neppure lo promettevo, non potevo prometterlo. Ma lo restituisco, fino ad oggi lo restituisco».
Contro l’ipocrisia
Il poeta deve interfacciarsi con le ipocrisie del mondo e si confronta incessantemente con il male sia dei giochi di potere sia della meschinità quotidiana. La sua filosofia non-violenta, tuttavia, non gli vieta di scontrarsi con altri autori che hanno vedute diverse dalle sue.
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In merito eclatante il caso sul film Claretta di Pasquale Squitieri, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1984. La pellicola ha l’intento di raccontare la storia dell’amante di Benito Mussolini, Clara Petacci – per l’occasione interpretata da Claudia Cardinale. Evtušenko, parte della giuria, si esprime contrario alla partecipazione dell’opera al Festival per i suoi contenuti fascisti. Tuttavia, alla fine la maggioranza decide di mantenerlo in concorso.
Le discussioni interne degenerano a tal punto che spingono il poeta ad esporsi pubblicamente per condannare il contenuto del film e dell’ideologia di estrema destra:
Che cosa ha permesso loro
o meglio, li ha aiutati a spuntare,
che cosa in esso gli ha permesso
di aggrapparsi alla svastica?
«Griderò “Fukù!” davanti alla morte»
Una continua interrogazione sulle nefandezze della storia. Evtušenko dedica pagine intrise di forte partecipazione sulla comprensione del male perpetrato dal Terzo Reich oppure sulle ragioni degli uccisori di Che Guevara. Per il poeta il male esiste e si manifesta concretamente, perpetrandosi nelle generazioni future:
Rinsavisci,
sciocco ragazzo immemore, –
sui nonni,
sui padri, vanno le ruote.
Il filo spinato, del passato
ammonisce,
bucando il serbatoio.
Eppure il bene riesce a insidiarsi negli animi della gente tramite atti di buon senso e solidarietà. Evtušenko non è un autore indifferente, tutt’altro. Partecipa attivamente e vive intensamente tutti gli avvenimenti della sua epoca, tramutandoli in arte. Fukù! rimane il viaggio più intimo che il poeta offre al suo pubblico – al pari del romanzo semi-autobiografico Non morire prima di morire. Un grido di verità, come affermazione di sé e di tutto il popolo:
Io – di ogni tempo coetaneo,
compaesano dei terrestri tutti
e perfino di tutti i galattici.
Io,
come indiano, con gli arrugginiti braccialetti di Colombo,
rauco griderò “Fukù!” davanti alla morte
ai tiranni falsamente immortali.
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