Raddrizzare l’aldilà

«Sillabario all'incontrario» di Ezio Sinigaglia

13 minuti di lettura
Sillabario all'incontrario

Si arriva in un punto della vita in cui l’avanzare dell’età è tale da riempirci di malinconia. Poiché realizziamo che il tempo ci scivola via fra le mani, si cerca in ogni modo di rivivere quanto abbiamo vissuto in gioventù, e allo stesso tempo si cerca di rimediare alle colpe del passato tornando con la memoria agli errori un tempo commessi. Deve averlo capito Benjamin Button, personaggio della penna di Francis Scott Fitzgerald, nato vecchio per cercare di ritornare all’innocenza dell’inizio.

Se Benjamin Button avesse scritto un sillabario, sicuramente sarebbe un sillabario rovesciato, e come nom de plume sceglierebbe Ezio Sinigaglia: proprio come l’autore milanese, fra le tante cose anche traduttore di autori come Marcel Proust, che per i tipi di Terra Rossa Edizioni è tornato in libreria lo scorso febbraio con Sillabario all’incontrario.

La trama di «Sillabario all’incontrario»

Proposto alla scorsa edizione del Premio Strega da Lorenza Foschini, Sillabario all’incontrario è un racconto autobiografico realizzato da parte dell’autore partendo dalla seguente premessa:

Questo libro nasce dalla malattia. Non è certo il primo. Al contrario non sarebbe fuori luogo affermare che il romanzo, ben più di ogni altro genere letterario, trae spesso origine dal germe di una patologia dell’autore e ne costituisce il (temporaneo, effimero) piano terapeutico. Ciò che questo libro ha di insolito è il fatto di essere nato da una vera e banale malattia del corpo, che soltanto in un secondo tempo si è trasformata in una malattia dell’anima da curare con la scrittura. E ancor più insolita è la natura di questa malattia del corpo: una ridicola varicella contratta a quasi cinquant’anni ed evolutasi, nel breve giro di una settimana, in broncopolmonite.

Scritto fra il 1996 e il 1997 alla soglia dei cinquant’anni, il sillabario di Sinigaglia parte dalla depressione per una banale malattia e diventa l’occasione per fare autoanalisi dando al racconto una struttura da romanzo giallo, in cui si parte dalla fine per giungere alle cause primarie del proprio stato psichico, anche se, come afferma fin dall’inizio l’autore, gli esiti sono incerti.

E così, come un novello Benjamin Button, l’autore passa in rassegna la propria vita partendo dal fondo fino all’infanzia. Il suo rapporto con i suoi quattordici gatti, il suo isolamento volontario a Geremeas, in Sardegna, l’editoria, la scrittura e la sua bisessualità: tutti temi e aspetti fondamentali della propria vita che Sinigaglia scandaglia per arrivare verso la fine – o meglio, l’inizio – cercando di confrontarsi con gli errori del passato e i propri sensi di colpa, e allo stesso tempo cercando di rispondere alla seguente domanda: è possibile andare oltre il passato e riappropriarsi del presente?

«Sillabario all’incontrario»: autobiografia sì, ma senz’ordine

La forma del sillabario come forma di narrazione non è cosa nuova nella letteratura italiana: si pensi, ad esempio, a Goffredo Parise e ai suoi Sillabari, ma pensiamo anche alla Nuova enciclopedia di Alberto Savinio, due esempi eccellenti di racconto di autoanalisi come già segnalato, ad esempio, da Massimo Salvati su Palin Magazine. Se il primo si è appropriato della forma del sillabario per tornare all’essenzialità della poesia in tempi politicizzati, il secondo si appropria della forma dell’enciclopedia per denunciare la crisi della civiltà e abbracciare l’idea dell’esistenza di un sapere disomogeneo: «Rinunciamo dunque a un ritorno alla omogeneità delle idee», scriveva Savinio, «ossia a un tipo passato di civiltà, e adoperiamoci a far convivere nella maniera meno cruenta le idee più disparate, ivi comprese le idee più disperate».

Come Parise e Savinio, Sinigaglia fa sua la forma del sillabario, che in realtà è molto di più. Come afferma per i suoi libri e in riferimento ai Delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe, di cui sostiene che non narri veri delitti, in quanto questi sono stati commessi da un orango invece che da un umano, anche qui Sinigaglia ha fatto «il gioco di attribuire ai libri che scrive titoli che ne svelano e ne mascherano ad un tempo i contenuti». Sillabario all’incontrario, quindi, segue un’ordine, ma al contempo lo sovverte, in quanto questo atipico ordine autobiografico parte dal fondo per cercare una causa del malessere psichico dell’autore:

Ecco dunque spiegata la genesi del libro (il disagio psichico) e la sua finalità (individuare la o le cause di quel disagio). Resta da dire della metodologia, che si disegnò quasi subito grazie a una felice ispirazione: scegliere una serie di parole-chiave e, poiché si trattava di andare a ritroso (alla ricerca di una causa del male), disporle in un ordine alfabetico capovolto.

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Un controsillabario per dare nuovo significato alle cose

Il sillabario à rebours di Sinigaglia non solo segue un ordine contro ogni logica dell’autobiografia, ma sovverte anche il significato delle parole. Ne è un esempio la parola “inedito”, che subisce il passaggio semantico da “mai pubblicato prima” a “interruzione”:

L’inedito è, in parole da elettricista, cioè tutt’altro che povere, l’interruzione di un circuito: è l’interruttore che resta perpetuamente bloccato in posizione off, rendendo impossibile la circolazione della corrente lungo un impianto che, sotto ogni altro punto di vista, è perfettamente in grado di funzionare: questo è l’inedito: la mancata commutazione di un interruttore.

L’inedito per Sinigaglia è la sua malattia dell’anima, ciò che interrompe ogni possibilità di vivere il presente in quanto si accumulano spiriti e fantasmi del passato complicati da gestire, ma il cui confronto è necessario all’autore per capire il motivo del proprio disagio psichico. Come per la parola “inedito”, anche altre parole cambiano di significato. Ed è così che «avvicinarsi a una persona invece di raggiungerla è un giudizioso richiamo alla legge dell’impenetrabilità dei corpi», il sogno non è più il momento delle novità inaudite, ma degli attimi di realtà sfuggiti durante l’attività diurna, mentre il ruolo è un modo per incatenare la natura a una quotidianità monotona anziché un modo per responsabilizzare gli altri.

Risignificando le parole, Sinigaglia riesce a guardare sotto una luce nuova la propria vita, e lo fa non solo attraverso l’umorismo nato dalle storture e dal rovesciamento semantico delle parole, ma anche dalle metafore scaturite dal nuovo significato a esse attribuito, che secondo l’autore coprono l’oggetto reale mettendolo in risalto in quanto «prezioso strumento d’indagine e di conoscenza», e dai lapsus generati da questi meccanismi. Per l’autore, i lapsus sono qualcosa che ci sorprendono, e nel sorprenderci ci fanno capire che «sotto c’è qualcosa di losco».

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Cosa c’è di losco nella vita di uno scrittore?

Il qualcosa di losco a cui l’autore fa riferimento e che forse contiene la chiave per risolvere un giallo che, a detta dell’autore stesso, risulta irrisolvibile è l’infanzia:

[…] in questo sillabario i ricordi d’infanzia hanno assunto, dalla P in poi, un ruolo inaspettatamente capitale: inaspettatamente, eppure direi inevitabilmente, visto che sto facendo un lavoro di autoanalisi: a quanto sembra, ogni tema che affronto rimanda all’infanzia, ogni lettera del mio alfabeto capovolto si capovolge una seconda volta per raddrizzarsi nello specchio di me bambino.

Se è vero che il romanzo giallo mette a nudo «un nervo mai addomesticato, pre-sociale, che si ribella all’odiosa necessità di essere perbene», con questo sillabario Sinigaglia trova nei ricordi dell’infanzia il nervo scoperto che gli impedisce di vivere perbene, o meglio, gli impedisce di vivere senza sensi di colpa. Ritornando alla giovinezza e all’infanzia, l’autore viene a patti con il suo rapporto con suo padre, incapace di esser stato «intensamente per un altro», con la sua sessualità e l’eros, in quanto comprende di non esser stato in grado di dare amore agli altri.

Alla fine di quest’analisi, Sinigaglia approda alla lettera A, dove troviamo la parola “aldilà”. L’autore crede di non poter far nulla per rimediare ai suoi errori e alle sue colpe. In realtà, però, nelle ultime frasi del libro risponde da solo a questo suo grande enigma della propria vita: «[…] scrivere è la sola cosa che renda vivibile la vita. Di qui il valore ambiguo dell’Aldilà con cui si chiude l’alfabeto capovolto, nella già presente necessità di andare oltre, raddrizzandolo». Il giallo di Sinigaglia è un giallo quasi gaddiano: un giallo senza fine la cui unica soluzione è continuare a scrivere e addentrarsi nel groviglio della memoria cercando di raddrizzare con la parola i torti commessi in passato.

Ezio Sinigaglia fra madeleine e sillabari

Sillabario all’incontrario (acquista) è qualcosa di nuovo e inedito in un’editoria ormai votata all’autofiction. Riprendendo Sinigaglia stesso, questo controsillabario è inedito nel senso che ci mette davanti a una vita che si interrompe in preda ai sensi di colpa e ai fantasmi del passato, e che per dominarli e raddrizzarli ha solo uno strumento a disposizione: la scrittura, che come sempre si dimostra l’unico modo per conoscersi, perdonarsi e andare al di là del proprio vissuto per riappropriarsi del proprio presente dando un significato nuovo alle cose che permette di dominare i fantasmi del passato e di superarli.

La vita offre un’alternativa secca: morire giovani o invecchiare. È come una bicicletta dal manubrio anomalo, che si può portare con una mano sola, e mai con due. Ciascuno dei due corni del manubrio ha le sue dolcezze e i suoi dolori. Non c’è modo di avere solo le dolcezze. Ma per aver solo dolori un modo c’è, efficacissimo: impugnare il manubrio con due mani. Invecchiare in una perpetua nostalgia di giovinezza, accerchiati da esistenze organiche e inorganiche che invecchiano con noi. Tutto peggiora, lentamente perlopiù, a tratti precipitosamente, ma sempre con costanza irrefrenabile e crudele.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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