Fake news: perché finiamo per credere alle nostre bugie?

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Con questi potenti versi (Metamorfosi XII, 54-61) Ovidio descrive cosa accade nella casa della Fama, una divinità romana che prende il nome da fari, “parlare”, un verbo che si lega dunque all’espressione stessa della parola:

Mescolate a voci vere, migliaia di voci false vagano di qua e di là, blaterando confusamente; alcune di esse riempiono di chiacchiere le orecchie sfaccendate, altre diffondono altrove le cose sentite narrare, e la dose delle invenzioni cresce a dismisura e ognuno aggiunge qualcosa di suo. Lì trovi la Credulità, lì l’incauto Errore, e la Gioia immotivata e gli sbigottiti Timori, e la Sedizione improvvisa e i Sussurri d’incerta origine.

Le meravigliose Metamorfosi mostrano già profonda consapevolezza di quanto le mezze verità, le false credenze e i sentito dire siano forieri di pericoli e di danni per la società intera. Di bugie, invenzioni, mistificazioni sono però pieni storia e mondo: come mai hanno questa grande capacità di moltiplicarsi? In che modo siamo portati così pervicacemente a confondere il vero con il falso? Perché finiamo per credere alle nostre stesse bugie?

La verità è diventata un fatto sociale?

Una recente indagine di natura psicologicaFake news (Il Mulino, 2018) – spiega l’enorme diffusione delle “false notizie” nella nostra epoca con la frammentazione sociale e con il proliferare di comunità virtuali che cercano di riempiere questo vuoto. «Negli Stati Uniti una persona su quattro non ha nemmeno un amico “vero” e la metà della popolazione ne ha solo uno», si legge nel documentato testo di Giuseppe Riva. L’autore lega a doppio filo la genesi delle fake news con l’inter-realtà e la solitudine prodotta dalla nuova tecnologia dei social media.

Si tratta però – come ben ricorda il professore ordinario di psicologia – di un fenomeno che è sempre esistito e che ha come sua cifra la totale confusione dei piani del vero e del falso. Dal mondo antico a quello contemporaneo (tanto ossessionato dal complotto giudaico da produrre I protocolli dei Savi di Sion), passando per la Venezia del Cinquecento, nella nostra lunga storia abbiamo scelto scientemente di mettere in circolazione dei falsi che si spacciano per veri. Gli stessi che a volte sono finiti per diventare fonti di successive ricostruzioni storiche (come racconta Il mercato dell’informazione. Notizie vere, false e sensazionali nella Venezia del Cinquecento, Marsilio, 2021).

Le fake news come fatti sociali situati

Quello che distingue le “notizie false” odierne da quelle messe in giro dai nostri avi è – secondo Fake news – il fare riferimento a “bolle”, comunità online sempre più chiuse, identitarie e incapaci di confronto. Le fake news diventano così, secondo l’autore del testo, dei «fatti sociali situati». Verità che hanno valore solo all’interno di un gruppo, che se ne serve per portare avanti i suoi scopi. Si tratta di fatti che hanno un’enorme capacità di imporsi e alterare la percezione della realtà dei componenti della comunità che li fa li propri. È quello che aveva già dimostrato Solomon Asch negli anni Cinquanta in un celebre esperimento sociale in cui si chiedeva di riconoscere e paragonare la lunghezza di una linea su un foglio: alla lunga, i vari intervistati si adeguavano all’errore della maggioranza.

Un’indagine dalle conseguenze oggettivamente inquietanti. Significa infatti che se ci si trova di fronte a molte persone che ostinatamente affermano che il bianco è nero o viceversa (per riprendere una celebre immagine di 1984 di George Orwell), si avrà enorme difficoltà a sostenere il contrario. Non è dunque difficile immaginare quanto diventi ancora più complicato nel momento in cui l’oggetto di affermazioni false non siano più fatti accertabili tramite l’osservazione diretta. A riprova, basti vedere quanto sia difficile “riportare alla realtà” chi difende storie che alla prova del sapere scientifico risultano banalmente false. Anzi, «come ha dimostrato recentemente il ricercatore del MIT Soroush Vosoughi con uno studio pubblicato sulla rivista “Science”, su Twitter le fake news si diffondono 6 volte più velocemente rispetto alle notizie vere e hanno il 70% di probabilità in più di essere ritwittate», leggiamo sempre nel già citato Fake news.

Tra fake news e leggende metropolitane

Storie che si radicano nei propri contesti sociali, che confermano i nostri pregiudizi e convinzioni, che ci aiutano ad affrontare un mondo in rapido cambiamento. Le fake news si scoprono così gemelle di un fenomeno che ha avuto un enorme successo alcuni decenni fa: le “leggende metropolitane” di cui ci racconta lo splendido Miti vaganti di Tommaso Braccini (Il Mulino, 2021).

Con maestria l’autore riesce a tenere insieme la studio del mondo antico con l’antropologia culturale, illuminando così un presente che spesso pare sfuggirci, grazie all’analisi di quelle che l’autore preferisce chiamare “leggende contemporanee”, cioè coeve a chi le racconta. Dai coccodrilli nelle fogne di New York ai serpenti lanciati con il paracadute, dai dischi rock con messaggi satanici agli amori con donne fantasma, fino alle untrici di malattie sessualmente trasmissibili, lunga è la carrellata delle storie “raccontate dall’amico di mio cugino” e della cui verità non si può dunque in alcun modo dubitare.

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Grazie a questo testo scopriamo invece con gusto – o forse con un po’ di disappunto? – che racconti che si credevano relegati al nostro tempo hanno invece origini antichissime e si dipanano dall’Europa al Mediterraneo, quando non giungono fino alla Cina. Molte di queste storie si rivelano infatti carsiche, con precedenti anche nel mondo antico, ma senza che vi siano legami diretti. Basti citare la leggenda di un imperatore Tiberio che avrebbe nascosto l’invenzione del vetro flessibile, una plastica ante litteram che non si poteva in alcun modo immettere nel mercato. Non nova sed ingenita, dunque, niente di nuovo sotto il sole. Si tratta infatti, leggiamo nel testo, di «storie estremamente variegate, ma che, com’è proprio delle leggende contemporanee, hanno in comune il fatto di costituire, a loro modo, una risposta a timori e inquietudini particolarmente sentiti e impellenti nei contesti in cui mettono radici».

Di particolare interesse e attualità sono perciò le parti dedicate a quello che l’autore definisce “complottismo rassicurante”. Quelle, cioè, che servono a resistere a un crollo delle certezze che si rivelerebbe psicologicamente insostenibile, come la leggenda dell’inside job dell’11 settembre. Una storia che ha ben poco di inedito, viste le forti analogie con il precedente del Sacco di Roma del 410 d.C. voluto o permesso dall’imperatore Onorio. Entrambe le storie, che non hanno ovviamente fili diretti, hanno lo stesso tacito scopo. Ovvero negare l’impensabile e dare conforto, perché «che cosa è al sicuro, se la capitale del mondo perisce?».

Le fake news come preludio alla violenza

Ed è proprio intorno alla teoria della cospirazione che si dipana Complotti! Da Qanon alla pandemia, cronache dal mondo capovolto (minumum fax, 2021) (acquista). Ricco di informazioni e rimandi per orientarsi negli immaginari del nostro tempo, il libro di Leonardo Bianchi prova a fare ordine nella fitta rete di credenze che animano sempre più cittadini di un Occidente in crisi. La pandemia come complotto dei potenti e la conseguente resistenza contro la “dittatura sanitaria”. La lotta contro la “Grande sostituzione” e il genocidio dei bianchi. Qanon, “complotto dei complotti” del tutto impermeabile ai fatti. L’autore ci porta così alla scoperta di un mondo che dagli Stati Uniti alla nostra Europa si sta radicando e acquistando maggiore dignità nel dibattito pubblico. 

A volte ridicoli, altre decisamente folli, ma sempre più pericolosi. Ha messo infatti in guardia lo stesso autore a una presentazione che «praticamente tutti gli attentati politici di estrema destra degli ultimi anni avevano alla base una o più teorie del complotto». Dal peggiore attentato terroristico negli Usa nel 1995 all’assalto al Congresso statunitense (di cui si raccontano precedenti e alta prevedibilità), il libro infatti è anche una rassegna di come le parole raramente restino solo parole e spesso portino a fatti e violenza.

Il complottismo, infatti, anche se può apparirci tale, non è composto solo da pazzi e da persone fuori dal mondo. A guardare bene, anzi, potremmo perfino riconoscerci, per quanto riflessi in uno specchio deformante. Una superficie che rafforza tutti i nostri dettagli, come mostra un antisemitismo nascosto ma onnipresente in tutti questi discorsi. Ed è per questo che è importante che alla fine del libro si racconti come si “entri” (e a volte, per fortuna, si “esca”) dalla “tana del bianconiglio” del cospirazionismo. Per provare a trovare cure e terapie a un fenomeno che sta uscendo fuori dalla marginalità.

Medice, cura te ipsum

Il libro pubblicato da minimum fax è utile anche perché ci aiuta a tratteggiare un profilo del complottista dei nostri tempi. Solo, abbandonato, spaesato e con la sindrome da “barbari alle porte”. È questo il tipo che si rileva dai vari personaggi che costellano la ricostruzione di Leonardo Bianchi. In fondo, non sembrano tanto diversi dai “rudi”. I fascisti cioè di fine millennio di cui parlava Bifo già quasi trent’anni fa in Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie (Tlon, 2021, terza edizione) (acquista) che connetteva la ricerca forzosa di identità alla crisi del senso e della politica, causata dall’eccesso di informazioni. Un profluvio di significati che non ci fa più superare la soglia di attenzione di otto secondi. Perfino meno di un pesce rosso che ci batte per uno secondo in più.

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Siamo sicuri di stare sempre parlando di qualcun altro? Bifo ci aveva già messi in guardia, riprendendo il detto latino Medico, curati da solo, dal pensare che il fascismo come psicopatologia fosse qualcosa di altro rispetto a noi. E se nel frattempo ci fossimo ammalati tutti? D’altronde, non solo l’estrema destra ha avuto le sue fake news. Alla fine del 2019, dal Cile arrivò la notizia del mimo sequestrato, violentato e ucciso dall’esercito. Dalla Spagna all’Italia si levò l’indignazione. Ci credemmo (quasi) tutti: per poi scoprire – una volta smentita dagli avvocati della stessa famiglia – che era del tutto falsa. E chi lo sa, tra qualche tempo forse rispunterà fuori. Perché, se le bugie hanno le gambe corte, sappiamo bene invece quanto le “notizie false” siano invece ben dure a morire.

L’adesione a tutte queste credenze – per riprendere le stimolanti riflessioni sviluppate dal professor Nicolas Guilhot – pare in ultima istanza determinata dalla sensazione di trovarsi alla “fine del (proprio) mondo”. Si sceglie di credere all’assurdo, per non essere da soli quando tutto crolla. A maggior ragione in un tempo come il nostro, in cui la fine si dà come esperienza presente e in cui la dissonanza cognitiva pare essere la norma e la costante. E al posto di un futuro fatto di «magnifiche sorti e progressive», ci ritroviamo solo macerie. Vorremmo poter dire che «non abbiamo paura delle rovine, noi che portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori», ma chi lavora con la parola sarà davvero capace di «mantenere alto il vessillo della verità» e reagire alla tendenza a ridurre sempre lo spaventoso ignoto al noto, come ci ha insegnato il maestro di complessità Edgar Morin?

Luca Cirese

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Redazione MM

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