Nel 2022 si celebreranno ricorrenze importanti per quanto riguarda le donne e i loro diritti. Ricorrono, infatti, i cent’anni dall’istituzione della Festa della Donna in Italia, e i cinquant’anni dalla nascita del primo movimento femminista italiano. Nonché dalla fondazione dell’International Wages for Housework Campaign di Mariarosa Dalla Costa e Silvia Federici, un movimento nato per ridefinire l’equità di genere e per ottenere il salario per le donne e i loro lavori domestici.
In un anno così importante, quello che si può fare come lettori e editori è continuare a dare spazio a voci femminili dimenticate. Fra queste Tsushima Yūko (1947-2016), figlia dello scrittore maudit Osamu Dazai, il cui romanzo Il figlio della fortuna è stato parte fondamentale del movimento femminista giapponese Ūman ribu, deriva nipponica del Women’s Liberation Movement.
A trent’anni dalla prima edizione Giunti del 1991, la casa editrice di Pordenone Safarà ha riportato in libreria questo romanzo lo scorso novembre, a riprova dell’importanza che ricopre Tsushima Yūko per quanto riguarda il femminismo internazionale e la letteratura femminile.
La trama di «Il figlio della fortuna»
Le vicende di Il figlio della fortuna ruotano attorno a Kōko, insegnante di pianoforte e madre single di Kayako. Spesso contraria alle scelte della donna, la protagonista si ritrova a confrontarsi con gli strascichi del divorzio dal marito Hatanaka. La donna si sente sempre fuori posto, specie per le scelte che ha fatto, disapprovate dalla sua famiglia, in particolare dalla sorella maggiore Shōko.
Il tutto si complica quando Kōko si rivela essere incinta. Molto probabilmente il padre sarà Osada, un amico di famiglia che fa da mediatore fra la protagonista e l’ex marito. Tutto resta incerto e sospeso fino alla fine, ma la gravidanza diventa un pretesto per riappropriarsi di sé stessa e del proprio corpo, per scardinare quelle convenzioni sociali che la vogliono relegata al ruolo di custode del focolare.
«Il figlio della fortuna»: Tsushima e il femminismo
Il figlio della fortuna viene fatto rientrare in quello che i critici definiscono shishōsetsu, «il romanzo dell’io». Questo è un genere intimistico e personale che negli anni Settanta, specie in riferimento al movimento femminista, ha saputo trarre a sé una certa risonanza. Tale etichetta viene affibbiata a Tsushima per via della presenza nella sua opera di una forte componente autobiografica. Elementi ricorrenti anche in questo romanzo sono la morte del padre avvenuta all’età di un anno, l’amore per un fratello disabile, l’esperienza di madre single e la morte a nove anni del secondo figlio.
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Tuttavia, Tsushima ha sempre considerato riduttiva la lettura autobiografica dei suoi romanzi. Il suo intento, infatti, è partire dalla sua vita per proporre riflessioni estendibili alla condizione della donna in Giappone in generale. Si legga ciò che scrive la traduttrice Maria Teresa Orsi in riferimento ai romanzi della scrittrice giapponese nella postfazione all’edizione italiana:
[…] le donne di Tsushima Yūko, a una lettura superficiale, non si presentano come femministe militanti. Le loro decisioni, pur sicuramente controcorrente, non appaiono dettate da una precisa posizione ideologica quanto piuttosto frutto di una lenta conquista raggiunta attraverso faticose e quasi sempre deludenti esperienze.
Indipendenza femminile attraverso il dolore della solitudine
Leggendo questa riflessione di Orsi, ci sembra di ricordare il concetto di «dolore del farsi soggetto» coniato da Christa Wolf nel parlare di Cassandra, personaggio della mitologia greca su cui l’autrice tedesca scrisse l’omonimo romanzo nel 1983. Anche Kōko si ritrova a scontrarsi con una società di stampo patriarcale che la vuole relegata al ruolo di madre e donna sposata. Per affermare la propria indipendenza deve passare per la sofferenza della solitudine e della sua posizione di essere fuori posto.
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Ciò che racconta Tsushima sembra molto simile anche alla protagonista de Il bambino di pietra di Laudomia Bonanni – omonima della figlia di Priamo. Altra similitudine è riscontrabile con Yeong-hye, protagonista de La vegetariana di Han Kang. Come i tre esempi citati, anche Tsushima racconta un’indipendenza femminile da raggiungersi a partire dalla sua interiorità, in particolare dalla dimensione onirica. Il racconto del presente di Kōko si alterna infatti ai suoi sogni. Un modo non lineare, questo, per narrare la sua storia di donna asservita alle convenzioni, che per liberarsi da esse decide di raccontarsi al lettore.
Il Giappone patriarcale di Kōko
Kōko vive in una società ancorata al sistema patriarcale, dove la donna deve fare da custode del focolare, restare fedele al proprio marito e crescere i figli con lui. La protagonista vive una sorta di cattività, preannunciata dall’incipit del romanzo, che racconta di un sogno in cui il freddo «dell’atmosfera di un tempo antico» e la montagna del Fuji «erano come catene che imprigionavano il suo corpo».
L’aspetto interessante è il fatto che a rendere la protagonista prigioniera del proprio contesto non sono tanto gli uomini – che qui appaiono fragili e quasi assenti –, ma le donne stesse. La protagonista ricorda ad esempio di quando la madre le diede la colpa per la situazione in cui si è ritrovata con Kayako dopo la separazione dal marito:
Kōko ricordò che la nonna di Kayako diceva spesso che non era il caso di avere troppe ambizioni per la nipote, era sufficiente che imparasse a cucinare e a fare il bucato. Lei stessa aveva commesso un grave errore consentendo a Kōko di mettere al primo posto lo studio e il pianoforte, e non avendole mai chiesto di aiutarla nelle faccende di casa. Come risultato a lei non importava niente della casa. Non bisognava rimproverare solo Hatanaka.
Il confronto di Kōko con le altre
Non solo, però, la madre si dimostra essere contraria alle scelte della figlia – e più in generale all’emancipazione delle donne – ma anche sua sorella Shōko. Quest’ultima fa sempre sentire in colpa la sorella minore cercando di portare a vivere con sé la nipote. Sembra, inoltre, perpetrare lei stessa la sottomissione della donna all’uomo, al punto da dire che avere una figlia avvocato a cui lasciare lo studio legale del padre sarebbe «una cosa tanto stravagante» e sarebbe, dunque, meglio «adottare un genero» che assuma il cognome della moglie.
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Anche la figlia Kayako si mostra costantemente in conflitto con la madre, al punto da rimproverare ogni suo gesto e di farla sempre sentire in difetto, come dimostra la seguente scena dell’esame di ammissione di Kayako a una scuola media privata:
“Sei in ritardo” aveva detto Kayako con una vocina infantile, dirigendosi verso il corridoio dove la cugina la stava aspettando. A quanto pareva si erano messe d’accordo prima. Al suono della voce di Kayako gli sguardi di tutti i presenti si erano rivolti verso il corridoio e Kōko suo malgrado era arrossita. Non avrebbero potuto incontrarsi altrove, senza farsi notare dalle altre candidate? Aveva avuto un moto di disappunto: possibile che la figlia non fosse capace di mostrare un minimo di considerazione per lei?
La gravidanza di Kōko come forma d’indipendenza
Il rapporto conflittuale con la figlia e la sorella fanno sentire Kōko fuori posto, una persona atipica rispetto ai canoni della sua società, poiché appare ai loro occhi «una cattiva madre, priva di buon senso». Tuttavia, la donna rifiuta ogni invito della sorella ad andare a vivere da sola – e in senso più ampio di accettare la sua sottomissione – e decide di proseguire a vivere da sola con la sua gravidanza, senza avere degli uomini accanto a lei:
Non poteva impedirsi di pensare che ormai si era allontanata dal sesso. Forse essere incinta significava questo. Aveva avuto paura di una gravidanza, senza dubbio, ma probabilmente l’aveva anche desiderata per poter continuare a vivere. Era strano, ma era proprio il rispetto di sé stessa che oggi le impediva di continuare a respingere una gravidanza, come invece aveva fatto ai tempi di Doi e prima di frequentare Osada. Non desiderava vivere con un uomo solo per il sesso. Fosse era la sua età, trentasei anni, che la spingeva a pensare così. Mettere al mondo un figlio era l’unico modo per sfuggire alla propria sessualità simile alla lava di un vulcano, era orgogliosa della propria decisione. Ricordando con quali occhi l’avevano guardata Osada e la sorella e perfino Doi e Hatanaka, si sentì prendere dall’indignazione. Se non avesse messo al mondo un figlio non avrebbe potuto far capire neppure a Doi perché quando era con lui aveva evitato la maternità, né fino a che punto fosse voluta sfuggire al potere del sesso.
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La gravidanza per Kōko diventa modo per vivere una propria sessualità indipendente dagli uomini. L’attesa del figlio si fa metafora del piacere sessuale e della sua femminilità, un modo per bastare a se stessa ed essere autonoma. Kōko rivendica il diritto al piacere, ma allo stesso tempo anche quello alla scelta e all’errore. Solo così può continuare a vivere e a rispettare se stessa: rendendosi libera dagli altri dimostrando come si può essere donna e madre anche senza la presenza degli uomini.
«Il figlio della fortuna» di Tsushima Yūko: rivendicare la femminilità
La riscoperta di Il figlio della fortuna (acquista) è oggi più che mai necessaria in una società in cui ancora si fatica a riconoscere la parità di genere. Tsushima Yūko racconta con la delicatezza tipica degli autori giapponesi una donna che rivendica il diritto al piacere, l’amore per se stessa e l’autonomia da un sistema patriarcale che le nega ogni possibilità di autodeterminazione, ma tuttavia decide di ribellarsi con coraggio alle convenzioni, perché essere donna significa essere se stessa a ogni costo. La storia di Kōko è quella di tutte coloro che ancora oggi continuano a battersi per i propri diritti e la propria indipendenza per rendere questo un posto migliore in cui vivere.
No, non era vero. Non era così. Non aveva scelto di vivere in un mondo diverso dagli altri solo perché le faceva comodo. Non si era mostrata ostinata e inflessibile solo nei confronti di Kayako. Per tutta la vita, pur fra mille dubbi, aveva cercato di essere fedele alle proprie scelte. Non sapeva se fossero giuste o sbagliate. Ma chi lo poteva dire?
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