«Finché nulla ci separi»: la trasfigurazione della falena

8 minuti di lettura
«Finché nulla ci separi» recensione libro Nivangio Siovara

Nivangio Siovara è uno pseudonimo. «Finché nulla ci separi» è il suo terzo romanzo, pubblicato per Prospero Editore. Sempre per lo stesso editore sono gli antecedenti L’onestà del Moloch, In albis e la raccolta di racconti Di Vento.

Un’opera significativa, la più strutturata e complessa scritta fino ad ora dal suo autore. Un libro irrinunciabile per chi voglia scoprire e apprezzare certa letteratura sperimentale del nostro Paese. Siovara riesce a plasmare graficamente la pagina ricordando le forme di Mark Z. Danielewski e Matthew McIntosh.

«Finché nulla ci separi»: la terra desolata di Amaagut

Il flusso di coscienza e i continui cambi di prospettiva operano comunque in ossequio a una storia. Per l’autore è fondamentale raccontare l’epopea giornaliera dell’architetto Amaagut. Come un novello Leopold Bloom, Amaagut si aggira per una città desolata popolata dall’immaginazione onnicomprensiva del suo creatore:

E a ogni passo che calavo sulla terra potevo – senza neppure dover abbassare lo sguardo – intravedere lo scaturirsi d’alte, promettenti scintille minacciose, potevo chiaramente udire lo sfrigolio del contatto del mio corpo sulla terra, il boato della mia potenza scagliarsi e riempire di sé le vuote attonite profondità della terra da me percossa.

Siovara è scrittore capace di rendere il suo stesso personaggio creatore di mondi. Amaagut svela il proprio cosmo al lettore per il tramite di diverse voci e citazioni letterarie più o meno esplicite, dove si potrebbero riscontrare delle analogie con La terra desolata di T.S. Eliot.

Destrutturazione, riflessi e rocce vaganti

La destrutturazione dell’opera per svelare il nulla. Amaagut si sveglia solo, a causa di un dolore sconosciuto. Una sanguinante ferita gli solca il viso. Un incipit quasi kafkiano che, però, sacrifica metafore più accentuate per presentare il protagonista in un’ottica violenta, spietata, decisamente più urbana.

L’immagine del volto è così deformata. Un autoritratto entro specchio convesso, per riprendere l’espressione dell’opera più nota di John Ashbery. Dove, come scrive Harold Bloom, «lo studio, la stanza degli autoritratti del poeta e del pittore, stanza come momento d’attenzione per l’anima che non è anima, adeguandosi perfettamente al vuoto della sua tomba, è anche il suicidio […] dell’arte che contempla se stessa».

In questo senso Nivangio Siovara scrive:

Scenderemmo fino al centro della terra per specchiarci. Oppure raddoppiare, al bivio, e restare. Per sempre. E alla fine raccontarsi com’è andata e nonostante non ci si sia mossi d’un passo, scoprire d’essere tanto diversi e come c’ha cambiato sedere in due posti differenti.

E infatti è proprio tramite la distruzione – anche inevitabilmente di sé – che Amaagut cerca di ricongiungersi alla sua amata, Bamiyan. Un’epopea il cui antieroe attinge più o meno direttamente anche alla figura mitica di Gilgamesh. Il risveglio dell’uomo nella saggezza in opposizione al torpore e alla mortalità dell’essere umano.

I concetti così affrontati da Finché nulla ci separi ricordano le Simplegadi omeriche. Come precisa Giorgio Melchiori commentando l’opera di James Joyce, si tratta di «rocce vaganti [che] rappresentano le sovrastrutture che schiacciano il libero manifestarsi della personalità umana nel concreto contesto sociale». Pertanto Amaagut è costretto a compiere il proprio viaggio di espiazione, dando libero sfogo alla parole e alle immagini per fuggire dall’omologazione.

Leggi anche:
«Vitiligism»: la body positivity nell’arte

Ricchezza stilistica dietro pseudonimo

Siovara dà prova di grande conoscenza del vocabolario italiano, continuando a rinnovare il suo linguaggio in maniera sì originale, ma anche profondamente coerente. I termini sono soppesati con cura e le ripetizioni vengono utilizzate solo per enfatizzare determinati passaggi – con particolare riferimento ai flussi di coscienza. I termini tecnici si alternano a un modo d’esprimersi decisamente più colloquiale, senza mai paura di scadere nel luogo comune. La scrittura segue un andamento irregolare; le parole – anche grazie all’invettiva grafica – fluttuano letteralmente. Il ritmo segue un corso singolare e come una molla si accartoccia su se stesso per poi estendersi subito dopo e così via.

In Finché nulla ci separi (acquista) emerge chiaramente l’intento antropologico intimista. Un apparente ossimoro che cerca piuttosto nella ricerca di sé la comprensione dell’altro. Amaagut compie questo rito iniziatico per capire cosa potrà riportarlo a Bamiyan.

E se il mondo così come immaginato fosse in realtà una costruzione di Amaagut, l’architetto?

Aggiungo d’aver intravisto, in quel vortice, un roteante, fiammeggiante anello rosso. L’ho veduto uscire da me, dalla mia testa, e da quell’istante ho provato una grande pace. E non sento più male, l’ammetto. Un luminoso vibrante serpente vermiglio raggomitolato era il mio dolore che adesso non è più. Chi piangerà il mio dolore che se n’è andato per sempre?

L’interpretazione della torre

Il personaggio di Amaagut ricorda due versi di Goethe: «Canterò della creatura / che vuol morte fra le fiamme». Così la falena irresistibilmente attratta dalla luce decreta la sua morte. Tuttavia, il protagonista di Siovara trapassa addirittura quella luce e ne esce trasfigurato. Come se l’illuminazione passasse per l’incipit di Samuel Beckett in Quello che è strano, via: «Immaginazione morta immagina. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo, poi qualcuno, ancora quello». Perciò è con questa morte che arriva l’altro, il duplice che diventa unico.

Il rapporto immaginato come costruzione di una torre:

Il costruttore della torre giunse infine al momento inevitabile in cui avrebbe dovuto posare l’ultima pietra […]. Decise che per posarla avrebbe dovuto impiegare tutto il tempo che aveva impiegato a innalzare il resto: una vita.

Così nell’arcano maggiore de La Torre nei Tarocchi di Marsiglia vediamo sì due persone intente a cadere dalla torre, ma anche immerse nei festeggiamenti. Nuovamente un cambio di prospettiva. Se adottiamo la prima versione è un quadro drammatico, eppure il significato recondito è quello dell’interruzione con il passato mirato all’evoluzione. Quindi divenire qualcosa di nuovo, inedito. Solo con il trauma la vita di Amaagut ha realmente inizio.

Segui Magma Magazine anche su Facebook e Instagram!

Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

Lascia un commento

Your email address will not be published.