«Quanti» di Flavio Santi: nell’atelier dell’artista

Vincitore del Premio Viareggio Rèpaci 2021 per la poesia, una raccolta poetica che offre uno sguardo all'atelier intimo e personale dell'autore

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Quanti

Il Premio Viareggio Rèpaci 2021 per la poesia è stato assegnato a Quanti (Truciolature, scie, onde, 1999-2019) di Flavio Santi. Intorno a questa silloge di un centinaio di pagine si crea fermento. Edita da Industria & Letteratura in una prima tiratura di 333 copie – da poco hanno annunciato la ristampa –, la raccolta si compone di quattro sezioni: Chiara, Memorie dallo schermo di vetro, Lapidario degli incipit e Oltre.

Già dal titolo – e dal sottotitolo – si può intendere immediatamente l’intenzione dell’Autore. Come precisa Niccolò Scaffai nelle primissime righe della prefazione: «Come nella fisica i quanti definiscono i più piccoli valori indivisibili di una grandezza, così nella raccolta di Flavio Santi, che dalle particelle elementari prende il titolo, ogni serie o blocco di testi trasferisce nell’insieme del libro un ‘quanto’ di materia poetica circoscritto ma coerente rispetto al tutto». Inoltre, il sottotitolo ci fornisce un elemento aggiuntivo: si tratta, infatti, di componimenti d’occasione, scritti negli ultimi due decenni. Santi affina la sua arte fra diverse prove e invita il lettore ad entrare nel suo atelier fra truciolature, intuizioni e sprazzi di genio. Leggere Quanti è come addentrarsi nel mondo interiore – contraddistinto da una feroce ironia – di un Autore esperto, totalmente immerso nella sua arte senza che essa rappresenti per lui stesso una prigione.

Una raccolta durata vent’anni

In questa raccolta, a tratti tanto modesta quanto grandiosa, si riscopre il piacere per la poesia. Non siamo di fronte a un linguaggio altisonante, arzigogolato, anzi; le parole affiorano e si susseguono naturalmente. Nonostante i componimenti siano stati composti nell’arco di vent’anni, la struttura così congeniata fa sì che la raccolta abbia comunque una sua omogeneità.

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Dopo Mappe del genere umano (edito da Scheiwiller nel 2012), Quanti riconferma Santi come poeta. Le raccolte non necessariamente nascono da un progetto circoscritto e calibrato in un arco di tempo limitato; come in questo caso, possono nascere inconsciamente, seguendo corsi carsici invisibili ai più. Poi, mettendosi a tavolino, i tasselli – o i quanti, appunto – definiscono un disegno preciso e non si può fare a meno di pensare che quel singolo componimento sia stato pensato per quel progetto. Ecco come le poesie vengono attratte nel loro rispettivo posto all’interno della raccolta, trascinate da una misteriosa forza magnetica. Ed è utile, dunque, addentrarsi in questo continuo gioco di rimandi e lasciarsi stupire.

A Chiara, «la rosa più assurda»

La prima sezione prende il nome di Chiara, compagna di vita del poeta. Già la frase di Albert Einstein in epigrafe – «esistono anche i quanti di luce» – presagisce come il lettore si trovi di fronte già a una sorta di canzoniere amoroso, dove le logiche razionali sono abbandonate a favore del lirismo leggero, comico, ma profondo. Si pensi solo a A mia moglie di Umberto Saba, dove con solenne ironia, il poeta figura un ritratto talmente intimo e giocoso della compagna difficilmente rinvenibile in altri autori della nostra letteratura. L’amore di Santi è adolescenziale, eppure epurato dal romanticismo – spesso eccessivamente malinconico di quegli anni. Classe 1973, guarda alle sue passioni rivivendole attimo per attimo ma con occhio decisamente più cinico. Dove il cinismo non è disprezzo, ma maggiore consapevolezza. Le chiamate interminabili – tra fili e cornette obsolete –, sguardi fugaci in treno o aereo che cesellano attimi indelebilmente impressi.

Come davanti a uno specchio
dicevo
non capivo, sai, che a
essere eterno ci vuole un
attimo, a essere con te
la rosa più assurda.

E come avviene per la Blue Rose di David Lynch, Santi cerca di trovare un senso, rassegnandosi poi all’esperienza tanto mistica quanto estremamente umana della comunione fra due persone. L’insegnamento di vivere l’attimo con la consapevolezza di passare l’eternità – o di quanto essa ci sia concesso – assieme:

Il tuo Dio a cui io non credo
– mi dispiace sai –
ci separerà lassù/laggiù,
le fiamme dall’estasi,
i buoni (tu) dai cattivi (io),
ma qui non perdiamoci di vista, ti prego,
in questa specie di eternità inventata.

La ballata tutta italiana: come il televisore cambiò le nostre vite

Memorie dallo schermo di vetro, invece, è un canto decisamente più sociale, politico. Si tratta di una denuncia dell’Italia del secondo Novecento, ma anche una ballata nostalgica di un passato prossimo mai nemmeno vissuto. Tutto inizia con la venuta nelle case degli italiani del televisore. Il tenore di vita si innalza apparentemente per tutti, partendo da alcune rivoluzioni quotidiane.

Si pensi solo anche alla cessazione della vendita di sigarette sfuse a vantaggio dei pacchetti. Per dirla con Giovanni Mariotti – attento e satirico testimone di quegli anni –: «Seppi così che l’Italia stava diventando ricca». Siamo figli de Gli italiani si voltano di Mario De Biasi, affaccendati – o nullafacenti? – milanesi imbambolati di fronte a una Moira Orfei poco più che ventenne. Eppure la sensualità, il sesso – e addirittura il porno – non vengono messi all’indice dall’autore. Sono un fatto naturale che coinvolge più o meno tutti. Un segreto inconfessabile che trova una sua spontanea conclusione in una riflessione matura intrisa di fatalismo. Si pensi all’amaro componimento dedicato – in parte – a Moana Pozzi: «Era la Moana al porno: / ora è polvere, ossa, / era già tanto magra».

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Ma la televisione oltre ad essere crogiuolo di contraddizioni – a tratti soporifere – è anche un continuo gioco di specchi («Quante persone avrei voluto essere allora!» oppure «Vivono di più loro, / gli elettrici, gemelli / ronzanti, a rovinarci la pelle / e creare spazi vivi e vuoti / come immensi laghi salati»). Proprio come nella letteratura, anche lo schermo permette alle persone di fantasticare e costruire nuovi castelli in aria. Il consumismo è dominante. I sogni di gloria popolano le notti degli italiani, ma in realtà:

L’unico possibile e immaginabile,
l’unico passabile in una vita senza centro
in una vita di cemento,
di fibre artificiali e inganni industriali
quando bello di una vita moderna e funzionale
mi ergevo alla mia condanna,
e non lo sapevo,
fiero di una fierezza molto anni Cinquanta –
gli anni di Bartali Coppi e Mira Lanza –
e morivo, e non lo sapevo, di
una morte lenta e viscosa.

E forse proprio in questa sezione emerge maggiormente il senso di frammentarietà dei componimenti che, tuttavia, compongono un tutto compatto e solido. Siamo «frammenti di storia, / le incisioni di vita / figlia di altra vita». Come i pixel formano un’immagine e si compongono e ricompongono in continui disegni, ecco come le nostre esistenze si adattano alla vita sia per un istinto di sopravvivenza che per innato innalzamento per comprendere «quel dannato / senso dell’umorismo della Natura».

Fra bozze e quanti di luce

Si prosegue con Lapidario degli incipit, la penultima sezione della raccolta. In questo caso si tratta di sfolgoranti intuizioni oppure semplici bozzetti. Versi caduti che non trovando una loro continuità vengono abbandonati e completati con una serie di puntini di sospensione (ricordate I quattro sonetti dell’Apocalisse di Nicanor Parra formati da sole croci?). Riprendendo un verso del Canto VIII dell’Inferno della Divina Commedia, Santi abbandona qualunque velleità, consapevole che l’atto creativo a volte può concludersi in un nonnulla. Eppure, queste prove hanno il fascino dei disegni preparatori.

Non mancano, però, componimenti più strutturati come Padova, via Anelli e The Football Chronicles. Anche in questo caso, tuttavia, sembrano presagire – nonostante si tratti delle poesie più lunghe e strutturate di Quanti – un’evoluzione che non avviene. Incipit di poemi/racconti che da una parte sono autoconclusivi, mentre dall’altra prospettano un’ulteriore riflessione. Un canto interrotto, smorzato che presagisce una grande capacità espressiva. Le poesie del Lapidario sono sia il canto del cigno sia il vagito premonitore.

L’ultima sezione, Oltre, si compone di una sola prosa breve: Così minaccioso. Santi figura l’apocalisse. Emerge un linguaggio scientifico, non privo di ironia. A quel punto ogni speranza di eternità cadrà. Cadrà l’arte che si è sempre retta sulla convinzione dell’eternità del suo messaggio, da Foscolo a Walter Benjamin, sia nelle forme classiche e romantiche di linearità sia in quelle postromantiche di riproducibilità e serialità.  Si volatilizzerà anche il libretto di risparmi del cinquemiliardesimo discendente del mio vicino di casa.

Le scie, le onde dell’improvvisazione poetica – frutto anche di anni e anni di esperienza – confluiscono nella catastrofe, nell’ineluttabile caduta dell’arte. Eppure, per ritornare alla prima sezione, «esistono [e continueranno ad esistere] anche i quanti di luce».

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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