Quando essere campioni era solo un dettaglio

«Fubbàll» di Remo Rapino

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Fubbàll

«Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia. E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori tristi che non hanno vinto mai». Così cantava Francesco De Gregori in La leva calcistica della classe ’68, contenuto nell’album Titanic (1982). Quello narrato dal cantautore romano era un calcio fatto di speranze, sogni, piccole cadute e momenti fatali in cui ci si giocava il tutto per tutto. Di certo un calcio diverso da quello di oggi, dove ormai sembrano fare più gola i soldi del campionato dell’Arabia Saudita invece della fede alla bandiera e ai tifosi.

Dopo il racconto breve Valdès, il Premio Campiello 2020 Remo Rapino torna a parlare di calcio con Fubbàll, raccolta di racconti edita da minimum fax. Seguendo il solco già tracciato con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio e Cronache dalle terre di Scarciafratta, l’autore abruzzese torna a raccontare la sua umanità di «spasulati», umile e vinta per destino, ma determinata a difendere i propri sogni.

La trama di «Fubbàll»

Fubbàll narra le vite di undici giocatori di calcio più un allenatore: calciatori come Milo, Glauco, Osso Nilton, Treccani, ma anche Wagner, Berto Dylan e l’allenatore partigiano Oliviero. Non sono calciatori come Cristiano Ronaldo, tutti patinati, ricchi e protagonisti sia sul campo che nella mondanità, ma sono persone semplici e di provincia che inseguono il pallone per dimenticare le asperità della quotidianità, animati soltanto dalla passione e dalla speranza di crearsi un posto nel mondo.

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In questi racconti sembra riecheggiare quanto cantava De Gregori. Sembra, infatti, di leggere le vite di persone «con il cuore dentro alle scarpe», pieni di paura, ma anche coraggio e fantasia, calciatori non per fama o ricchezza, ma per sognare un mondo diverso da quello che hanno sempre vissuto. Sono giocatori che, anche nella sconfitta, mostrano il proprio talento e la propria umanità.

«Fubbàll»: il calcio secondo Remo Rapino

Fin dall’inizio, Remo Rapino mette nero su bianco il tipo di calcio che vuole raccontare: quello basato sulla «bellezza e il gioco del vivere». L’autore vuole raccontare un calcio che sapeva raccontare delle storie sul campo, storie di rivalsa e di lotta contro il destino, sempre pronto a dare il colpo finale e a troncare ogni speranza. Il calcio di Rapino è un calcio che si fa poesia, come dimostrano gli eserghi all’inizio di ogni racconto di autori come Albert Camus, Antonio Gramsci, Osvaldo Soriano o Platone.

La presenza di questi eserghi ci aiuta a capire quanto il calcio per Rapino sia qualcosa che va oltre un tiro in porta. Come recita l’esergo di Ezio Vendrame nel racconto di Baffino, «il gioco del calcio è tutto quello che c’è prima del gol»: è qualcosa di esistenziale, che raffigura cioè la sete di infinito dell’essere umano, i suoi limiti e la sua lotta contro di essi.

In questi racconti, inoltre, il calcio ci viene presentato come uno strumento di rivalsa sociale, in quanto i protagonisti di questi dodici racconti non solo vengono da un contesto di provincia, ma anche da un contesto sociale prettamente operaio, che attraverso il calcio ha trovato la propria realizzazione ed espressione.

Il calcio come espressione della working class

Leggendo i racconti di Rapino, viene in mente quanto racconta lo scrittore britannico Anthony Cartwright ad Alberto Prunetti in Non è un pranzo di gala (minimum fax, 2022) a proposito dei suoi romanzi, fra cui Heartland (66thand2nd, 2013), che rappresenta il calcio come strumento di identificazione di una working class che fra il thatcherismo e il New Labour di Tony Blair si è trovata allo sbando e senza punti di riferimento:

Hai ragione a considerare il calcio come una manifestazione della cultura working class industriale, uno dei grandi doni che quella cultura ha fatto al mondo. Mi rendo conto che il calcio moderno si sta allontanando da tutto questo e sta diventando un semplice ramo dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento. Ma nel suo cuore il calcio rimane lo sport delle fabbriche di Birmingham e Sheffield e Manchester, di Torino e Milano, dei moli e dei cantieri navali di Glasgow, Liverpool, Bilbao, Marsiglia, Buenos Aires, Napoli…anche quando una parte consistente di quei cantieri e fabbriche non esiste più. Adoro le connessioni tra persone e luoghi che il calcio crea.

In questa riflessione di Cartwright, si riscontra grossomodo l’intento della narrativa di Rapino, vale a dire il recupero del passato prima che la modernità spazzi via tutto. Ed è così che Rapino recupera il calcio di una volta: quello legato a un contesto provinciale, operaio, che attraverso il calcio cercava riscatto. I calciatori di Fubbàll sono, infatti, minatori, operai, ferrovieri o contadini, che con il loro gioco volevano far sentire la propria presenza nel mondo:

Io ero solo un bravo operaio del pallone, un manovale porta mattoni, niente di più, ma provateci voi a mandare avanti una fabbrica o a costruire un palazzo senza operai o manovali. Solo a chiacchiere che ci riuscite. Io questo volevo, far capire che il mondo ha bisogno di tutti e di tutto, pure delle persone come me che fanno al meglio quello che gli dicono di fare, che non gli fanno tanti complimenti se azzecca qualcosa oppure lo riempiono di offese terribili quando sbaglia.

I calciatori raccontati da Rapino vengono da quartieri operai e case di ringhiera «spesso avvolte da una nebbia che toglieva prospettive ai profili del mondo», divisi fra il mondo del lavoro e quello del calcio, il cui gioco permette di sviare dalla rabbia e dai brutti pensieri per la fatica e per le umili condizioni in cui sono costretti a vivere. Baffino, per esempio, ricorda il padre «sempre malta e cemento fra le dita», Nadir «il passo stanco di mio padre ferroviere», Treccani il padre fornaio che voleva che suo figlio studiasse per non fare un lavoro di troppa fatica come il suo, mentre Pablo, «calciatore per caso, e operaio per necessità», vede nel calcio un’occasione di riscatto dal contesto operaio del padre e del nonno:

Per fortuna il sabato pomeriggio o la domenica c’era il campo di calcio, l’altra mia grande passione, uno sfogatoio per molti, dove si poteva correre e cacciar fuori, insieme al sudore, tutti i cattivi pensieri e le incazzature della settimana intera. Così, tra un calcio d’angolo e un fallo laterale, riesco a interrompere la filiera tradizionale di famiglia, nonno-operaio, padre-operaio, figlio-operaio.

L’eroismo dei giocatori di «Fubbàll»

Questi giocatori working class e di provincia giocano non tanto per arricchirsi – Osso Nilton, per esempio, mandava i primi soldi a casa in quanto «mio papà era idraulico e i giorni bisognava sfangarli tutti tra tubi e chiavi inglesi» –, quanto per rincorrere i propri sogni oppure, come Pablo, il cui pugno alzato a ogni gol era un modo di mostrare vicinanza verso gli ultimi, verso chi come lui veniva dalle fabbriche e con tanti sacrifici mandava avanti una famiglia:

Ogni tanto ripensavo alla mia tuta blu e alla resa dei conti mi trovavo contento, soprattutto perché non ero cambiato dentro, l’odore della verniciatura non l’avevo dimenticato, né volevo farlo e mai l’avrei fatto. Anche questo significava il gesto del pugno, dare un po’ di felicità, pur se solo per due ore a settimana, a quanti venivano a vedermi giocare e mi sentivano uno di fabbrica, uno dei tanti.

I calciatori protagonisti sanno perfettamente che non arriveranno mai a giocare assieme ai grandi del pallone come Gigi Riva o Nilton Santos, ma sanno allo stesso tempo che possono fare proprio il campo dal calcio, renderlo un luogo delle tante possibilità dove poter essere comunque grandi per gli altri. Come afferma Giuseppe, «per fare corse su corse ci vuole benzina, mica sorrisetti e brillantina nella chioma sempre in ordine che uno pare che passi le sue giornate dal barbiere». Sogni nati sui campetti di calcio pieni di fango e terra, quelli della scuola o dell’oratorio, sogni di libertà per i quali vale la pena correre.

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I protagonisti di questi racconti sono, dunque, «brutti anatroccoli tra cigni chiari e belli», uomini che portano nomi di battaglia come Pirata o Il Gatto, eroi umili per i quali il calcio era «un boato di speranza per i poveri cristi». In questo eroismo ritroviamo quanto letto in Valdès, dove il calciatore cileno Francisco Valdès vive fino all’ultimo una certa tensione eroica nel riscattare le sue umili origini, ma anche nel riscattare il destino del suo popolo sottomesso alla dittatura di Augusto Pinochet.

«Il calcio è una gran bella cazzata»

L’eroismo dei protagonisti di Fubbàll sta anche nella propria capacità di nutrire i sogni e le speranze fino alla fine. Le speranze a cui si fa riferimento sono quelle di libertà, di sconfinare verso nuovi luoghi, di arricchirsi conoscendo nuove persone. Il calcio giocato dai personaggi è fine a se stesso, in quanto «è solo una gran bella cazzata, che, se uno si ferma un attimo a pensare, la vita gira intorno a cose molto più importanti», ma è anche uno sforzo collettivo in cui a riscattarsi è un’intera classe sociale che attraverso il calcio impone la sua esistenza nel mondo.

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I calciatori di Rapino sono poeti e sognatori allo stesso tempo, in quanto «se uno è bravo davvero a giocare lo è per sé, perché ha qualcosa dentro, prima con la testa e solo dopo con i piedi». Sono persone che abitano il mondo attraverso il pallone, che vogliono a loro modo cambiare le cose e dare una speranza a chi crede in loro. Sono, inoltre, consapevoli che nemmeno loro sono esenti dall’avanzare del destino, e anche loro sono soggetti alle sconfitte e alle umiliazioni:

Di sicuro è che ci mettevo il cuore su ogni pallone, in ogni sgroppata, in effetti il talento ce l’avevo nel cuore mica nei piedi, ed era meglio così, era più semplice e umano. Non segnavo molto, eppure in certi frangenti diventavo una specie di eroe della curva Fiesole. Ognuno ha il suo destino e va bene così.

Il calcio, quindi, è molto di più di una questione di vita o di morte, di vittoria o sconfitta: è una danza su un campo verde con il proprio destino nel disperato tentativo di realizzare e difendere i propri sogni. Per i dodici protagonisti di questa raccolta di racconti, il calcio è un modo per dimostrare che si può toccare il cielo anche se si è poveri e disgraziati e che si possono fare grandi cose anche se predestinati al fallimento.

«Fubbàll»: coraggio, altruismo e fantasia

Al mondo d’oggi, quando pensiamo al calcio non pensiamo più ai campetti dell’oratorio dove, come ricorda Osso Nilton, «al posto delle preghiere [ci sono] i cori e le bestemmie della domenica», ma a uno sport dove gran parte dei giocatori sono ricchi e fanno la bella vita. Fubbàll (acquista) ci riporta al calcio di una volta, fatto di polvere, fango, campi di calcio in mezzo a enormi palazzoni e capannoni che agli occhi di chi giocava sembravano dei piccoli Bernabeu dove tutto era possibile, dove anche ogni piccola sconfitta era un atto eroico. È questo il calcio di Remo Rapino, ed è questo quello che dovrebbe essere il calcio: uno sport dove non ci sono né vincitori né vinti, ma grandi sognatori che anche nella sconfitta danno speranze di rivalsa.

La mia calata si aggrappa alla quiete mai trovata, forse perché non ce l’ho fatta a diventare quello che volevo. Ma, alla fine di tutto, essere campioni non è che un dettaglio. Però, mi andrebbe proprio all’osso che, un giorno, qualcuno mi facesse parola, per presentarsi e chiedermi di Baffino. Potrei rispondergli, finalmente, con un, Molto lieto, Davide Bertelli, il mio nome all’anagrafe comunale.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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