Gilgamesh: tornare alle origini del mito

Voci di umanità al tempo della catastrofe

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Gilgamesh

Tornare alle origini dell’epica e della narrazione con Gilgamesh. Grazie alla nuova edizione critica della Biblioteca Adelphi, abbiamo l’occasione di addentrarci di nuovo nel più antico poema della nostra storia. Verso dopo verso, si snoda l’epopea di chi, primo tra gli uomini, cercò l’immortalità contro la caducità della vita umana, scoprendo antichi saperi e riportando a casa fama e saggezza.

Gloria non mancò all’eroe della terra tra i due fiumi, con le sue gesta narrate attraverso i millenni nelle molte e differenti versioni arrivate fino a noi e finalmente raccolte in italiano. Imprese che stanno a ricordarci, ancora una volta, quanto fitte siano state le connessioni tra la cultura greco-latina e le civiltà del vicino e lontano Oriente. A fare da ponte, il grembo del nostro mondo, una mezza luna fertile che dall’Egitto arrivava alle fenicie Tiro e Sidone per poi rivolgersi a Est verso il Tigri e l’Eufrate, tra i cui corsi sorse il primo impero umano, quello mesopotamico.

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Alla ricerca dell’eterno, sulle orme di Gilgamesh

E lì dove nacque la nostra civiltà, lì si ambienta il Bildungsroman di Gilgamesh, romanzo di formazione che è insieme indagine poetica sulla condizione mortale. Colui che vide il Profondo, come era nota l’opera presso gli Assiro-Babilonesi, ci conduce per primo alla scoperta dei limiti tracciati per l’uomo su questa terra. Siamo ai primordi dello γνῶθι σεαυτόν, il “conosci te stesso” che ci insegnò la profonda saggezza greca.

Alle soglie della Foresta dei Cedri, che qualcuno vuole situata nel vicino Libano dove sorse la civiltà dei navigatori e commercianti fenici, ecco i versi pronunciati dall’eroe di quella che Rainer Maria Rilke definì «l’epopea della paura della morte»:

Chi mai, amico mio, potrebbe ascendere al cielo?
Solo gli dèi dimorano per sempre nella luce del sole.
Quanto all’uomo, i suoi giorni sono contati,
qualunque cosa faccia, non è che vento.

La lezione imparata da Gilgamesh

In fuga dalla «Morte feroce, che falcia gli uomini», Gilgamesh fu chi «perlustrò il mondo alla ricerca disperata della vita» – leggiamo nel poema –, in cerca prima dell’immortalità data dalla fama, poi della vita eterna raccontata dai miti, per scoprire, infine, che l’unica eternità concessaci è quella che si lascia grazie a un duraturo retaggio. Dura e dolorosa, infatti, la lezione che il nostro protagonista impara nel suo lungo viaggio:

La vita che cerchi tu mai la troverai:
quando gli dèi crearono gli uomini,
la morte assegnarono agli uomini,
la vita la tennero per sé.

È la caducità della vita umana, la consapevolezza di essere solo di passaggio, che sono stati mirabilmente cantati nelle epoche successive dalla poesia greca e latina. Pulvis et umbra sumus, “non siamo che polvere e ombra”, ci ammonisce Orazio in una delle sue più belle odi, in cui si strugge che l’uomo sia destinato a perire, a non tornare, come le fortunate stagioni, anno dopo anno, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio.

Una nuova edizione critica dell’epopea di Gilgamesh

A rileggere i versi ricchi di umanità dell’epopea di Gilgamesh, non si possono che ammirare le scelte editoriali della casa editrice Adelphi che per prima portò in Italia l’edizione critica inglese del 1960 e ora ha tradotto quella del 1999, con il testo della “versione standard” più ampio ad oggi. Un’edizione ricca e illustrata di «un capolavoro danneggiato», come lo definisce il curatore Andrew George nella sua importante introduzione, in cui spiega anche quali siano le varie versioni sopravvissute del poema che vengono pubblicate nella nuova edizione.

Un libro, se possibile, più bello del precedente, non solo per l’elegante scelta della copertina e delle illustrazioni e apparati a corredo, ma anche perché la versione si vuole filologica e fedele all’originale. L’edizione degli anni Ottanta, tradotta dalla Piccola Biblioteca Adelphi, optava per una prosa che mescolava le varie versioni per ottenere una maggiore leggibilità. Questa invece può risultare aspra alla lettura, ma, oltre a mantenere la poesia dell’originale, nelle sue lacune ci ricorda essa stessa la costante lotta dell’uomo contro il Tempus edax rerum, il tempo “di tutto divoratore”.

Arche di sapere anti-diluviano

In una simile ricerca di eternità che lo ha portato fino ai confini del mondo, là dove confluiscono i fiumi, il nostro eroe è uscito egli stesso trasformato dalle esperienze, è divenuto saggio come il nostro Odisseo dal «multiforme ingegno». Solo così è stato capace di riportare indietro un sapere antico. A insegnarglielo, Utnapishtim, il sopravvissuto al Diluvio, evento catastrofico originario condiviso dalle civiltà che si affacciano sul Mediterraneo. «Ecco io manderò il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne, in cui è alito di vita; quanto è sulla terra perirà», sono le parole di Dio nella Genesi.

Gilgamesh, colui che «restaurò i centri di culto distrutti dal Diluvio, / e istituì per il popolo i riti del cosmo» può al suo ritorno in patria guardare le solide mura che ha eretto per la sua città ed esclamare: Exegi monumentum aere perennius! “Più duraturo del bronzo ho eretto un monumento, che mi sopravvivrà e eterno ricordo lascerà di me”. «Anch’io a guardarmi bene vivo da millenni / e vengo dritto dalla civiltà più alta dei Sumeri»… In tempi apocalittici, hanno molto da insegnarci le tante tavolette sopravvissute di questa meravigliosa epopea: attraversando le stesse “Acque della Morte”, come il protagonista, è tempo di costruire arche nella tempesta, per salvare umanità e civiltà nella catastrofe.

di Luca Cirese

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Redazione MM

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