La malinconia dei coralli

«La sindrome di Ræbenson» di Giuseppe Quaranta

16 minuti di lettura
La sindrome di Raebenson

In un suo scritto dedicato allo scrittore Jean Améry incentrato sul tema della memoria, W.G. Sebald distingueva fra perturbamento e razionalità discorsiva. Il primo è la memoria, ciò che non sa farsi parola, che comunica pertanto il silenzio; la seconda, invece, è il ricordo, ovvero il momento in cui la memoria si fa parola, che rispetto a essa ha maggiore valenza sociale, in quanto è socialmente accettabile per la sua capacità di adattarsi in base al contesto.

Da qui in avanti bisognerà ricordarsi quanto dice Sebald sulla memoria, poiché l’esordiente di cui si parlerà, uno psichiatra di origini pugliesi, tiene bene a mente questa lezione. L’autore in questione è Giuseppe Quaranta, il suo esordio è La sindrome di Ræbenson (Edizioni Atlantide, 2023), di cui qualche estratto era già apparso nelle pagine social di Crudo, studio editoriale di Michele Vaccari, e che è stato finalista della XXXVI Edizione del Premio Italo Calvino.

La trama di «La sindrome di Ræbenson»

Il protagonista di La sindrome di Ræbenson è Antonio Deltito, uno psichiatra all’epoca dei fatti quarantenne. Antonio racconta – e chiede di raccontare – la sua storia al narratore di questo romanzo, un suo collega psichiatra. Il protagonista racconta di soffrire di una particolare malattia, la sindrome di Ræbenson del titolo, i cui sintomi sono allucinazioni uditive, crisi epilettiche e soprattutto problemi di memoria. Chi ne soffre, inoltre, è incapace di morire di morte naturale, come se fosse condannato all’immortalità.

Questa particolare sindrome, che non trova riscontro in nessun manuale di medicina, incuriosisce talmente tanto il narratore al punto che questi decide di approfondire meglio la questione. Il narratore consulterà documenti, memorie di Deltito e intervisterà medici ed esperti per cercare di risolvere il mistero attorno a questa enigmatica malattia, ingaggiando un confronto serrato fra la realtà e la finzione, la vita e la morte, la memoria e il ricordo.

Il passaggio da «La malinconia dei coralli» a «La sindrome di Ræbenson»

Come scritto all’inizio dell’articolo, il romanzo di Quaranta era già noto ai lettori come La malinconia dei coralli. Il senso di questo titolo è da ricercarsi nel seguente brano del libro:

Si mise qualche secondo a pensare e poi mi domandò a sorpresa: “Lei sa chi sono gli animali più malinconici sulla terra?».
Non ebbi niente di intelligente da dire.
“I coralli”, fece, togliendomi dall’imbarazzo. “Hanno visto che questi invertebrati marini, che elaborano quello scheletro di calcite così caratteristico – non c’è essere umano che non conservi un ciondolo o un braccialetto fatto di quella concrezione calcarea – arrivano a sopravvivere coi fondali oceanici anche a centinaia, se non migliaia di anni. Ammesso che una coscienza esista in ogni specie vivente, e con essa tutta l’amarezza del vivere, spetta decisamente a loro il titolo di animali più malinconici del pianeta”.

Il titolo originale ben rispecchia anche il tema del romanzo. Come i coralli sono ancorati al loro vecchio scheletro di calcite, e di conseguenza sono statici e poco inclini al cambiamento, così Deltito – ma anche altri personaggi che come lui soffrono della sindrome di Ræbenson – sono incapaci di lasciar andare il proprio passato e di evolversi con il passare del tempo.

Il passaggio, pertanto, dal vecchio titolo La malinconia dei coralli a quello di La sindrome di Ræbenson è dovuto alla centralità di questa problematica che evidenzia il romanzo. Oltre a ciò, essendo quella di Ræbenson una sindrome che nella realtà non esiste – ma che ha riscontro con altre patologie psichiche come, ad esempio, la pesudologia fantastica, che in letteratura ha già avuto noti riscontri come nel caso del falso ebreo Binjamin Wilkomirski –, entra in gioco anche il tema della finzione e della rielaborazione della memoria, quella che W.G. Sebald definisce ricordo o razionalità discorsiva.

La razionalità discorsiva nella sindrome di Ræbenson

Il tema della finzione entra in gioco su tre livelli: quello dell’autore, quello del narratore e quello di Antonio Deltito, tutti e tre coinvolti in un sofisticato gioco letterario di scatole cinesi che rende complessa e articolata la riflessione sul rapporto fra memoria, ricordo e vita. Se da un lato Deltito racconta i sintomi di una presunta malattia la cui eziologia è sconosciuta ai più, il narratore ha in mano il compito di raccontare la storia del protagonista, arrivando alle volte a maneggiare le sue memorie.

A complicare il tutto c’è lo stesso Quaranta, che non solo inserisce elementi della sua vita all’interno del romanzo – psichiatra, originario di Taranto e attivo a Pisa come Deltito – ma agisce anche a livello iconografico, plasmando a suo piacimento ciò che in realtà è totalmente inventato e mutuato da altro. In questo senso Quaranta ha bene in mente la lezione di Sebald: l’autore prende immagini e articoli di giornale presi dai contesti più disparati – l’iconica foto di Austerlitz, difatti, è stata trovata in un mercatino dell’usato ed è diventata quella che conosciamo tutti come la foto di Jacques Austerlitz da bambino – per dotarli di un nuovo significato tale da giustificare l’esistenza della sindrome di Ræbenson.

Inseguire la memoria

Un ruolo centrale lo gioca, dunque, la memoria. Il narratore nota, ad esempio, che Deltito è «incapace di stare al passo con le cose, di trattenerle nei meandri della memoria». Qui ci troviamo in un Funes borgesiano rovesciato: se quest’ultimo aveva una grande capacità di immagazzinare dettagli, Deltito deve costantemente inseguire la memoria di ciò che ha vissuto in un continuo ricostruire e riformulare i ricordi del passato, un «non riuscire a vivere senza fare attenzione ai dettagli» che lo costringe a non cedere all’impulso della morte inventando fatti mai accaduti:

La storia di Deltito però differiva in una cosa: non aveva alcun testimone di ciò che cercava di ricordare. Si sforzava di richiamare alla memoria fatti che probabilmente non erano mai accaduti. La sua disposizione d’animo non era quella di chi si lascia sopraffare dallo smarrimento, ma di colui che, conscio di questo, cerca di porvi rimedio.

Deltito si comporta in una maniera simile a Liam, protagonista di The Entire History of You, terzo episodio della prima stagione di Black Mirror, il quale rimodula i suoi ricordi visualizzati sullo schermo per giustificare il tradimento della moglie Ffion. Come Liam, anche Deltito ricorda cose che altro non sono che la proiezione di incubi e paure che gli altri gli hanno trasmesso e che, di conseguenza, «non concordano con la realtà».

Una sindrome che non concorda con la realtà

Se i ricordi di Deltito non trovano corrispondenze con la realtà, di conseguenza nemmeno la sindrome di Ræbenson, con tutto che la sua presunta esistenza è legittimata dal punto di vista iconografico, ha dei riscontri con la realtà. Il sospetto, infatti, è che sia un’invenzione del narratore e dell’autore stesso, come lascia intendere il seguente brano relativo al nome della malattia:

A volte avevo la sensazione, essendo passati tanti anni e proprio parlando di alternativa, che l’intera storia con protagonista Antonio Deltito fosse cominciata con le Porte della percezione di Huxley, che avevano fornito un oscuro accesso – senza ausilio della mescalina e attraverso la “pittura più bella del mondo” – ai temi dell’immortalità e della vittoria sulla morte; oppure che fosse frutto di una fantasticheria che la lettura del libro del critico d’arte Bernard Berenson aveva suggerito all’orecchio sensibile della mia mente. Una storia partita con le quattro figure dormienti ai piedi del sepolcro come spicchi di una arancia mistica e quella ieratica del Cristo levatosi dalla sua tomba nella Resurrezione di Piero della Francesca, e finita con il ritorcersi stesso di questa resurrezione infinita. Del resto, i nomi di Berenson e Rabenson erano troppo simili per non farmi scuotere dalla vertigine dell’immaginazione. Anche il libro che leggevo quella sera a Sansepolcro, poco prima di addormentarmi, era un vecchio classico dal nome fin troppo sospetto: Robinson Crusoe.

In questo brano abbiamo una chiave di lettura fondamentale che ci aiuta a districarci nel complesso gioco di scatole cinesi innescato da Giuseppe Quaranta, dal narratore e da Deltito. Tutti e tre in un certo senso non vogliono arrendersi all’idea della morte del corpo cercando di prolungare la vita dell’anima. Deltito lo fa reinventando i suo ricordi per lasciare tracce della sua esistenza, mentre il narratore prolunga la vita dell’anima inventandosi l’esistenza della sindrome di Ræbenson che impedisce di morire. Quanto all’autore, quest’ultimo perpetua la vita nella finzione inserendo in un libro due vite – quella del narratore e di Deltito, dove il primo prolunga la vita dell’altro e allo stesso tempo gli è concesso di vivere grazie all’autore – che senza una storia alle spalle rischiano di scomparire.

La narrazione della memoria per vincere la morte del corpo

Se la sindrome di Ræbenson non concorda in pieno con la realtà, è perché per i suoi inventori la memoria è come una tela che va dipinta e colorata secondo ciò che si vuole vedere e ricordare. Solo in questo modo i tre di cui sopra possono vincere la morte del corpo: prolungando le proprie anime attraverso la finzione e la narrazione.

La memoria di qualcosa persiste nel tempo perché persiste la sua reinvenzione e narrazione. Qui si risente molto l’eco di Funes: la memoria per esistere deve essere selettiva e costantemente rielaborata. La sindrome di Ræbenson, dunque, è ciò che legittima l’esistenza di Deltito e del narratore, che continuano a vivere in quanto c’è qualcuno che col passare del tempo continuerà a raccontare le loro storie.

Morte del corpo, immortalità dell’anima

È dai tempi di Hamburg di Marco Lupo che non si leggeva un esordio di ampio respiro internazionale. La sindrome di Ræbenson (acquista) si confronta con il complesso tema della memoria su più livelli: a livello creativo, narrativo e iconografico. Tenendo a mente le lezioni di Sebald, Borges e Nabokov – che logicamente Atlantide tira in ballo nella bandella del libro –, Giuseppe Quaranta mette in campo la sua esperienza di psichiatra e di lettore per raccontarci come la memoria non soltanto sia selettiva, ma perpetra la vita attraverso la sua stessa rielaborazione. La vita dell’anima va avanti a scapito della vita del corpo perché la narrazione e la finzione la rinnovano innestandola con ricordi e incubi appartenenti ad altri. Solo così l’anima può essere veramente immortale e superare la morte: se c’è qualcuno disposto a raccontarla dandole sempre nuova vita.

‘Delia mi ha portato oggi, come le avevo chiesto, il libro che avevo a casa’, scrive il giorno dopo. ‘Ho riletto questo passaggio del pensatore di Copenhagen: Quando ci disperiamo per qualcosa nel mondo, la passione resa infinita dalla nostra immaginazione fa, di questo particolare, di questo qualcosa, il mondo nella sua totalità. Ma quando pensiamo che i confini della nostra pena coincidano con quelli del mondo ci illudiamo. A nessuno, in realtà, è concesso di sentire la totalità del mondo, tranne ad alcuni, forse pochissimi. Queste persone ingrandiscono all’infinito la perdita di qualcosa’, scrive ancora Deltito pensando forse a sé stesso, ‘tanto da finire per scontrarsi con i limiti della loro disperazione; solo a quel punto si disperano di non potersi disperare anche della totalità. Nel momento in cui concepiscono questa sete, intuiscono dentro loro stessi un sentimento che li porta a cercare quest’eterno ovunque, e per il fatto di non trovarlo, la rinuncia a essere sé stessi, o in una forma più bassa, disperatamente non voler essere un io, o nella forma più bassa di tutte: disperatamente voler essere un altro, diverso da sé stesso, augurarsi un nuovo io, in un altro luogo”.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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