Gli anni Sessanta sono uno dei periodi più prolifici della storia del Novecento per quanto riguarda la poesia. Da un lato, le spinte capitalistiche del boom economico avevano radicalmente cambiato l’assetto socio-economico del paese trasformando l’Italia da paese essenzialmente agricolo a potenza industriale neocapitalista all’avanguardia, in linea con tutto il mondo occidentale. Sotto tale aspetto si possono ricordare, ad esempio, le affermazioni di un poeta molto attento in quegli anni ai mutamenti sociali, ossia Pier Paolo Pasolini.
Il mutamento antropologico in Italia
Pasolini parlò di mutamento antropologico volto all’omologazione di massa in senso capitalistico-consumista con una cancellazione coatta delle distinzioni e dei particolarismi che permanevano soltanto nella piccola cerchia marginalizzata del sottoproletariato (i protagonisti di Ragazzi di vita, ad esempio).
Non a caso in uno dei suoi poemetti più famosi, Le ceneri di Gramsci, uscito alla fine degli anni Cinquanta, in un colloquio poetico al cimitero degli inglesi con un “tu”, evidentemente proprio Antonio Gramsci, Pasolini dice:
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilato le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.
Pasolini, Le ceneri di Gramsci
Insomma, di fronte alla vittoria del regime capitalista, secondo Pasolini, le «supreme pagine» gramsciane e il suo sacrificio rappresentato quasi a tratti messianici per un futuro migliore risulta vano. La stessa inquietudine pare essere condivisa anche da un vecchio caposaldo della poesia italiana, Eugenio Montale. Quest’ultimo parla di «oscurissima mutazione», dandogli poi una forma poetica particolarmente dimessa e a tratti autotestamentale, se si pensa alle poesie prodotte in quegli anni poi raccolte in Satura.
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Il rapporto fra poesia e società
Dall’altro lato, sulla scia proprio delle affermazioni montaliane, gli anni Sessanta in questo senso segnano una spaccatura nel rapporto tra poeta e società, proprio in conseguenza ai mutamenti economico-sociali. La domanda sorge, quindi, spontanea: che ruolo ha il poeta nell’epoca del neocapitalismo?
La risposta ci viene ampiamente fornita dagli esempi di poesia di quegli anni e soprattutto dalla spinta di forme emergenti ed eversive rispetto alla tradizione precedente che «insistono sulla separatezza del sistema poetico moderno, sull’assolutezza di una scrittura che è capace di fare piazza pulita di tutte le convenzioni e persino di cancellare ogni valore etico» (Giovannetti, 2005, p. 16).
I caratteri d’eversività più ricorrenti e ricorsivi nelle opere abbracciano una pluralità di tematiche poetico-stilistiche e formali della poesia del Novecento. Quello più prorompente lo si vede certamente nella dissoluzione dell’io, un io in questo senso marginalizzato che lascia spazio nella situazione enunciativa ad altri io. Gli esempi più lampanti, in questo senso, possono essere visti in particolare in Nel Magma di Mario Luzi, reduce di un’esperienza poetica ermetico-simbolista, esponente infatti dell’ermetismo fiorentino.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: <<tu? non sei dei nostri>>
…
<<Dunque sei muto?>> imprecano le labbra tormentate
Presso il Bisenzio, Nel Magma, Mario Luzi
Nell’esempio appena proposto possiamo infatti notare chiaramente lo spazio che questi io-altri prendono nella poesia, tanto da marginalizzare l’io del poeta, il quale subisce inerme gli altri.
Un altro esempio, dove per parafrasare Enrico Testa, si verifica quasi uno sdoppiamento dell’io che porta alla creazione di una serie di alter-ego è Giorgio Caproni, con il seme del piangere e l’opera successiva, ossia Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee.
ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
Scendo. Buon proseguimento.
Congedo del viaggiator cerimonioso, Giorgio Caproni
In questo senso, Caproni stesso, in un articolo del 1947, definisce narcisistico il monologo lirico dell’io come unico attore e pertanto «a questa tendenza contrappone un tipo di scrittura che, assumendosi l’impegno di tessere in poesia un racconto, abbandoni riferimenti diretti al genere della confessione e del diario e coinvolga, accanto ad un’esile controfigura dell’io “altre persone interposte e magari contrastanti o perfino contraddittorie”» (Testa 2005, p. 20)
Le avanguardie poetiche degli anni Sessanta
Alla dissoluzione dell’io e all’annichilimento di certa parte della poesia si contrappone una spinta di carattere avanguardistico di un gruppo come il Gruppo 63. Nell’antologia di Alfredo Giuliani I Novissimi precedente alla creazione del gruppo avanguardistico l’aspetto dell’Io viene interpretato in tal modo da Giuliani: «una reale riduzione dell’io, quale produttore di significati, e una corrispondente versificazione, priva di edonismo, libera da quella ambizione pseudorituale che è propria della ormai degradata versificazione sillabica e dei suoi moderni camuffamenti. […] La riduzione dell’io è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente» (Giuliani 1961, p. 21).
Un’avanguardia che si basava sull’eversione di carattere linguistico-stilistico, dove tutto il passato viene distrutto attraverso versi storpiati.
composte terre in strutturali complessioni sono Palus
Putredinis
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie
eri il mio corpo
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica
spirituali
Laborintus, Sanguineti
Insomma, gli anni Sessanta sono anni prorompenti per la poesia italiana e la spaccatura che si creò in quest’epoca e che ebbe delle conseguenze sugli anni a venire.
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