Una storia brianzola working class

«Quasi niente sbagliato» di Greta Pavan

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«Quasi niente sbagliato» di Greta Pavan

In Melanconia di classe. Manifesto per la working class (Atlantide, 2022), la poetessa e saggista americana Cynthia Cruz ha teorizzato la morte simbolica della working class con l’avvento del neoliberismo, che ha dato adito alla creazione di una società verticale in cui il concetto di classe sembra non esistere più, se solo non fosse che a continuare a esistere sia la borghesia, che annienta i valori della classe lavoratrice per non perdere il proprio dominio.

Con il neoliberismo si è affermata, inoltre, l’etica del lavoro per sopravvivere, che porta i membri della working class a recidere il legame con le proprie origini per provare ad assimilarsi a una realtà che li sfrutta e li rifiuta, diventando, così, abitanti di «un’intermedio fra due morti», fantasmi di un mondo che non riconosce i suoi diritti. Una specie di intermediario fra due morti è anche Margherita, protagonista di Quasi niente sbagliato (Bollati Boringhieri, 2023), romanzo d’esordio di Greta Pavan finalista alla XXXV Edizione del Premio Calvino con menzione speciale.

La trama di «Quasi niente sbagliato»

Quasi niente sbagliato si svolge fra il 1996 e il 2012 fra la Brianza, grande protagonista ambientale di questo romanzo con i suoi non-luoghi come i centri commerciali e i capannoni industriali, e Milano, che resta molto sullo sfondo. Margherita vive in una famiglia i cui nonni sono emigrati dal Veneto alla fine degli anni Cinquanta, una famiglia di lavoratori che, con il loro culto del sacrificio e della dignità, hanno contribuito a fondare la Brianza di oggi e la sua religione del lavoro.

Rispetto a tanti anni fa, però, i tempi sono ora cambiati: il lavoro come sacrificio per la dignità, come poteva essere per Libertino Faussone, protagonista della Chiave a stella di Primo Levi, si è trasformato in lavoro come sacrificio, ma per mera sopravvivenza. Margherita nutre il sogno di diventare giornalista, ma comincia a vivere un cambio di paradigma in cui dà tutta sé stessa per raggiungere i propri sogni anche al costo di essere sfruttata e poco considerata.

«Quasi niente sbagliato»: un romanzo working class?

Leggendo la sinossi del libro, e considerando le umili origini di Margherita e il contesto da cui viene, ci viene da pensare che Quasi niente sbagliato sia un romanzo working class. Ma è veramente così? Per cercare di dare una risposta, sarebbe utile dialogare con un testo che ha provato a dare delle linee guida sulla letteratura working class, ovvero Non è un pranzo di gala di Alberto Prunetti (minimum fax, 2022), che definisce la letteratura working class in questo modo:

[la letteratura working class] significa sentire un impegno di responsabilità verso le storie delle persone di classe lavoratrice e la maniera in cui le rappresentiamo. E poi anche soffiare sul fuoco, raccontare il conflitto, alimentarlo con le parole scritte. Storicizzare. Ritrovare i fili rossi, brandelli di memorie che legano la vecchia e la nuova classe lavoratrice. Raccontarsi all’interno della classe, con le nostre parole, per non farsi raccontare dagli altri, per non subire «i loro» racconti, che spesso ci schiacciano a terra e ci umiliano.

Gli elementi della letteratura working class in «Quasi niente sbagliato»

Prunetti prosegue dicendo che nel fare letteratura working class bisogna tenere a mente come le politiche di classe e di identità siano fortemente intrecciate fra loro. Sempre secondo Prunetti, bisogna adottare una prima persona singolare non per lasciarsi abbandonare a tic narcisistici, ma per far sì che l’io diventi una collettività nel momento in cui ci si immerge nel mondo che si descrive, ed è necessario non rappresentare in maniera vittimistica e paternale i membri della working class, usare l’ironia e ibridare le narrazioni per sovvertire i valori della classe borghese.

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Se consideriamo questi elementi, allora azzarderemmo a dire che Quasi niente sbagliato può rientrare nella letteratura working class. L’autrice, ad esempio, adotta sì una narrazione in prima persona, ma utilizza il tempo passato per creare una certa distanza dal racconto, evitando, così, un approccio vittimista. Questa distanza è creata, inoltre, dalla presenza di due capitoli scritti come fossero due atti di un dramma teatrale, in cui Margherita ha un ruolo marginale, aumentando ancora di più la sua distanza e il suo essere una non-persona.

Pavan, inoltre, ben sa mettere a confronto due generazioni diverse tra loro dal punto di vista del lavoro: quella dei nonni di Margherita, che hanno lavorato per la propria dignità e sono riusciti a costruirsi un futuro, e quella di Margherita, che cerca un lavoro per sopravvivere e si illude di poter costruire qualcosa.

Brianza: un contesto working class

Per un romanzo come quello di Pavan, fondamentale è anche il rapporto fra i personaggi e l’ambiente come contesto sociale. Il contesto sociale di Quasi niente sbagliato è, infatti, quello della Brianza, una provincia dalla forte spinta produttiva e fra le più ricche della Lombardia. Malgrado ciò, però, l’autrice la descrive come un non-luogo, un posto anonimo, quasi abbandonato a sé stesso, un grande paesone che diventa zona di passaggio verso la metropoli di Milano. In una sua recente intervista, l’autrice ha motivato nel seguente modo la scelta di raffigurare la Brianza come un luogo senza identità culturale e politica precisa:

Per questo la Brianza del romanzo è un paesaggio profondamente antropizzato; esiste anche una Brianza di grandi parchi, boschi e ville di delizia, io però ho scelto quella dei capannoni macchiati di umidità, dei centri commerciali, del cemento, della ruggine. Sono andata alla ricerca del brutto, dei luoghi in cui la natura e la bellezza sono assoggettate alla comodità. Mi sono concentrata anche sulla transitorietà: la Brianza del romanzo non è mai un posto in cui stare, ma è sempre un luogo di passaggio, quindi di grandi arterie autostradali, rotonde, stazioni, ponti, binari. Una traduzione estetica della difficoltà di trovare un’identità anche politica e culturale. 

Ritornando a Cynthia Cruz, la Brianza è lo specchio di Margherita: un intermedio-fra-due-morti, che vuole diventare come una grande metropoli, ma incapace di rinunciare alle proprie radici, e dunque un fantasma che è tutto, ma forse è niente. Di questo fantasma, l’autrice raffigura prevalentemente gli stradoni, l’asfalto, la ruggine, i capannoni e i parcheggi: tutti elementi che rendono questo posto non solo anonimo, ma di passaggio, in continuo movimento verso qualcosa di irraggiungibile.

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Nel confrontarsi con la propria realtà, Margherita osserva «il rumore di operosa nullità, di operosa cattiveria, di operosa morte tua vita mia e operoso niente niente niente niente», e racconta in sostanza cos’è la Brianza: un ossimorico tutto e niente, un continuo produrre e sacrificarsi senza ormai ottenere nulla se non altro che lo scarico dei pullman che riempiono la protagonista di terrore nel diventare «figlia di quei luoghi» da cui non può fuggire.

«Si mangia o si viene mangiati»

L’operosità brianzola non è soltanto un ossimorico tutto e nulla, ma anche un modo per sfruttare gli altri e incolparli dei propri insuccessi, proprio come succede in quella che Byung-Chul Han definisce società della prestazione: se non sacrifichi tutto te stesso al lavoro e alla prestazione, la colpa è solo tua, e se non otterrai nulla dal sacrificio, la colpa resterà sempre e solo tua.

Quello che gradualmente impara Margherita, in particolare a scuola, è che «si mangia o si viene mangiati», una sorta di imperativo darwiniano ai tempi del neoliberismo in cui se arranchi lavorando sopravvivi, altrimenti muori. Le storie che la ragazza ascolterà di Tomas Bata, calzolaio ceco da cui il nome della più importante catena di calzature europea, e del barbiere Mino del Vanity Acconciature aumentano ancora di più la pressione che la giovane vive su di sé e i suoi sogni di realizzarsi.

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Il lavoro come modo per sopravvivere

Come scrive Sarah Jaffe in Il lavoro non ti ama (minimum fax, 2022), «la dinamica è sempre individualizzante: la tua vita è il risultato delle scelte che tu hai fatto, pertanto nessuno è tenuto a empatizzare con te, e men che meno a venirti in soccorso, se fallisci». Per Margherita, quando si parla di lavoro «sperare era il primo verbo della lista»: il lavoro da giornalista non solo viene bollato come un sogno adolescenziale, ma anche come un lavoro come tanti che bisogna sperare di ottenere per sopravvivere.

Emblematica in questo senso è la conversazione che la protagonista ha con Javier, un personaggio chiave in questo romanzo per ciò che concerne il rapporto fra la protagonista e il lavoro:

“Ma è una bugia” […] “che se uno lavora bene, vale qualcosa di più. Che il lavoro es un merito. El trabajo no es un merito ni un talento. Non è la chiave del paraíso. Vuoi lavorare bene, male? Non importa. È solamente propaganda. Una propaganda personal, di noi stessi”.

Margherita, dunque, capisce che il lavoro non è più una questione di merito, di sacrificio e dignità, ma una questione di fortuna, di casualità, un treno da prendere subito appena arriva, pazienza se su quel treno non si sta comodi, perché l’importante è esserci saliti su. L’importante è diventato restare a galla, e l’amore per il lavoro è una bugia come le altre per sfruttarti e scaricarti alla prima occasione utile. Il lavoro è un dio che non ti ama, che scarica la colpa su di te se non hai successo.

«Quasi niente sbagliato»: un’eterna gavetta per la sopravvivenza

Quasi niente sbagliato (acquista) è il tentativo riuscito di raccontare cosa sono diventati il lavoro e la working class. Margherita è l’ennesimo fantasma che abita la nostra contemporaneità, incapace di uscire dal proprio contesto e allo stesso tempo di realizzarsi in un nuovo ambiente. È l’ennesima vittima di una religione, come quella del lavoro, che sfrutta il proprio amore e la propria dedizione promettendoti stabilità, ma regalandoti solamente incertezza e disillusione, e dandoti la colpa di tutti i tuoi fallimenti.

Ma che si trattasse di diventare cassiera o impiegata o imparare dalla nonna a cucire gli orli, di lavoro si parlava con un piagnucolio frettoloso dentro cui, negli anni, avrei distinto il panico: per chi non aveva aziende che portassero il proprio cognome – grazie a dio un fatto frequente, in Brianza, quello di vedere il proprio cognome montato sul tetto di un capannone – rimanere senza un mestiere era un’eventualità da non osare guardare negli occhi. Trovare lavoro, un lavoro stabile, era come rincorrere un treno con le porte in chiusura: si spera di prenderlo, speriamo di prenderlo, allunga il passo, corri che è tardi, senti come fischia e ora salta sul vagone più vicino, a cercare un posto comodo ci pensiamo dopo; era lui ad andare in quella direzione e noi a stargli dietro, sempre che ci facesse il favore di rallentare – lui, il lavoro, esisteva prima e sarebbe esistito dopo, con noi o senza, al pari delle stelle in cielo e della sabbia in fondo agli abissi; lui, il lavoro, il treno furibondo, era lui che decideva chi, quando, dove e, in definitiva, se.

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Alberto Paolo Palumbo

Insegnante di lingua inglese nella scuola elementare e media. A volte pure articolista: scuola permettendo.

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