Le formule della fatalità: l’Homo Faber di Max Frisch

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homo faber feltrinelli

Faber est suae quisque fortunae, ovvero: ogni uomo è artefice del proprio destino. Attribuita al console Appio Claudio Cieco, quest’espressione è giunta fino a noi grazie alla seconda delle Epistulae ad Caesarem senem de re publica di Sallustio. Nei secoli, il significato ha acquisito una sfumatura peculiare, improntata a identificare l’uomo razionale per eccellenza. Un individuo capace di utilizzare il proprio intelletto per adattare la realtà dei fatti alle proprie esigenze.
Da questo impulso, Max Frisch scrive il suo capolavoro: Homo Faber. Un resoconto.

Il protagonista del libro si chiama Walter Faber, è un ingegnere per l’Unesco e fin dalla giovinezza vanta il soprannome di Homo Faber. Convinto di poter calibrare ogni singola reazione in ossequio a un mondo meccanico, infatti, Walter formula in maniera oculata e distaccata tutte le scelte della propria esistenza. Ormai cinquantenne, si definisce soddisfatto del proprio stile di vita: ha un lavoro sicuro e gratificante, nessun legame sentimentale stabile. La razionalità gli conferisce una certa serenità, nonostante il lettore percepisca fin da subito l’instabilità del narratore.

Come suggerisce il sottotitolo, Homo Faber è innanzitutto un resoconto dettagliato degli eventi che colpiscono Walter a partire dal 26 marzo del 1956 fino ai primi giorni di agosto. Proprio il 26 marzo, l’Homo Faber si trova all’aeroporto La Guardia di New York. Destinazione: Caracas. In particolare, si deve occupare di un’opera ingegneristica che andrà a supportare il Paese del Terzo Mondo. A seguito di un guasto, l’aereo è costretto a un atterraggio di emergenza nel torrido deserto messicano del Tamaulipas. Da questa presunta fatalità si snoderà una serie di conseguenze – secondo Faber «un’intera catena di casi fortuiti» – che porterà il protagonista a una riflessione sempre più profonda e lucida sulla sua vita e sull’universo in generale.

Tra probabile e improbabile: il ragionamento limitato

Walter analizza metodicamente i fatti verificatisi, cercando di mettere un ordine alle sue idee solitamente così precise e affidabili. I riferimenti più o meno espliciti a fatti che il lettore conoscerà solo con l’avanzare della lettura, aumentano esponenzialmente la suspense del racconto. Inoltre, il linguaggio diretto e senza fronzoli dell’ingegnere fa sì che la narrazione proceda in maniera cadenzata, come se il fluire delle pagine non fosse altro che un collage di fotogrammi.

Le frasi sono solitamente brevi, lapidarie. Le considerazioni vengono esposte senza eccessivi sofismi. Cedere al misticismo, per Faber, non è ammissibile. Il destino esiste solo nel momento in cui l’uomo ne è artefice. Le sue avventure – o la sua vita addirittura – non sono frutto di una sorta di predestinazione, bensì di un’alternanza tra probabile e improbabile:

Il probabile […] e l’improbabile […] non si distinguono nella sostanza ma solo nella frequenza, e l’esito più frequente viene giudicato a priori il più credibile. L’occasionale prodursi dell’improbabile non implica tuttavia nessuna realtà superiore, nessun miracolo o cose del genere, come vorrebbe il profano. Se parliamo del probabile, l’improbabile vi è compreso come caso limite del possibile, e se questo occasionalmente si produce non dev’essere per noi motivo di stupore, di sgomento e di mistificazione.

Come tutto ebbe inizio: il guasto all’aereo

Cosa succede in quel deserto messicano?
Faber ha l’occasione di approfondire la conoscenza con il passeggero a cui era seduto accanto: Herbert Hancke. L’improbabile vuole che egli sia il fratello di Joachim, amico d’infanzia di Walter, nonché primo marito di Hanna, l’amore giovanile del protagonista. Herbert confessa a Faber di doversi recare in Guatemala per cercare il fratello scomparso. Walter, attratto fatalmente dal desiderio di rivedere l’amico, decide di seguire l’uomo nell’impervia giungla guatemalteca.

A partire da questo impulso, il protagonista si troverà su una nave diretta verso il vecchio continente. E proprio lì, sicuramente più che in altri luoghi, avrà inizio il suo cambiamento. Walter documenta i viaggi con una fedele cinepresa, cercando di registrare ogni dettagli in maniera ossessiva, evidenziando maggiormente la sua convinzione di tenere sotto controllo la realtà. Solo sul finale, quando l’epilogo del suo concatenarsi di eventi prende una piega del tutto inaspettata, confessa:

Siedo un’altra volta sui massi lungo la riva e fumo un’altra volta un sigaro – non filmo più niente. A che serve! Hanna ha ragione: poi lo devi guardare filmato, quando non c’è più, e tutto passa – L’addio.

Un’opera assoluta: il continuo divenire

Homo Faber è un’opera assoluta che, partendo da Walter Faber, riesce a sviluppare una serie di concetti universali, difficilmente riassumibili. Come il conterraneo Dürrenmatt, anche Max Frisch ricostruisce una narrazione interessante, fatta di un susseguirsi di continui svelamenti. Ciò porta il lettore ad approfondire avidamente ogni frase, ogni osservazione.

Il romanzo è ambientato sul terminare degli eventi. Ormai costretto a letto dalla malattia, Walter ripercorre mentalmente i mesi appena trascorsi, come guardando dalla sua cinepresa. Già nelle prime pagine vengono di tanto in tanto lasciate intendere una serie di allusioni sulla direzione che prenderà la storia. Al termine della prima parte, poi, la climax viene bruscamente interrotta, portando alla presa d’atto di un evento catastrofico, senza che lo spettatore sappia cosa sia successo veramente. Solo in un secondo momento, con una tecnica narrativa magistrale che alterna il post e l’ante della vicenda, il lettore ricostruisce il finale.

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Nel corso del resoconto, Faber diviene sempre più consapevole della propria situazione e il linguaggio passa dall’analitico al poetico. L’emotività prende così il sopravvento, ma comunque arginata da una certa struttura narrativa che riprende il primo Faber. È come se il linguaggio sempre più emozionale del protagonista non riuscisse a liberarsi totalmente della zavorra dei suoi pregiudizi. Solo con l’avvicinarsi del finale, Faber riesce se non a comprendere almeno ad apprezzare la vita nonostante le sue tragedie.

Come in Cuore di tenebra di Joseph Conrad il marinaio Marlow racconta all’equipaggio della Nellie la sua avventura nell’Africa nera, Faber racconta innanzitutto a se stesso i fatti che l’hanno sconvolto. Spesso raccontare le cose permette di comprenderle meglio. Nel racconto-confessione non esistono necessariamente unitarietà e coerenza, ma azioni e reazioni vengono alterate secondo lo stato d’animo del narratore. In Homo Faber, tuttavia, non c’è mai una presa di posizione definitiva: è un’opera in continuo divenire, incapace di approdare a incrollabili verità. Al contrario, forse l’obiettivo principale dell’opera è proprio quello di demolire le certezze accumulate, non solo in una vita, bensì nei secoli.

L’eterno conflitto fra razionale e irrazionale, dal Don Giovanni a Homo Faber

Il concetto di razionalità contrapposto all’irrazionalità non è inedito nella produzione di Frisch. Nonostante i vari riferimenti disseminati nella sua intera produzione, l’opera in cui questa contrapposizione viene evidenziata maggiormente è il testo teatrale Don Giovanni o l’amore per la geometria. In tale variante dell’eterno mito del burlador de Sevilla, scritta nel 1953, Frisch ci restituisce un affresco inedito. Don Giovanni – per usare le parole Enrico Fiilippini – viene dipinto: «come colui che seduce le donne per liberarsene, per ripugnanza verso la “palude dei sentimenti” e per amore della perfetta trasparenza dei concetti geometrici».

In particolare, nel terzo atto figura una delle affermazioni più famose del Don Giovanni di Frisch che, se letta nell’ottica dell’Homo Faber, risulta rivelatoria:

Che cosa è un cerchio, un puro luogo geometrico. Io ho bisogno di questa purezza […], di questa sobrietà, ho bisogno di precisione. […] Tu sai che cos’è, un triangolo? È ineluttabile come un destino. […] Così e non altrimenti dice la geometria. Così e non in un modo qualunque! Qui non puoi far trucchi, qui non valgono gli stati d’animo, esiste una sola figura che coincide col suo nome. Non lo trovi bello?

In questo senso, Homo Faber si potrebbe collocare come secondo capitolo di una narrazione ideale, iniziata con il Don Giovanni. Nell’opera teatrale, però, Frisch ha il bisogno di confrontarsi dichiaratamente con la tradizione classica europea. Al contrario, nel romanzo la questione ne risalta meno dichiaratamente. Homo Faber (acquista) è innanzitutto un romanzo fondante della cultura del Novecento, che non dimentica la grande tradizione filosofica tramandataci nei millenni.

Con una spiccata sensibilità verso il classicismo, i personaggi di Frisch sono di una tragicità commovente. In merito, non è un caso che l’evento catartico trovi come sfondo ideale una Grecia in agosto tra il classico e l’industrializzato. Tuttavia non c’è, almeno in questo caso, nessuna volontà divina. Vi è solamente l’uomo a confrontarsi con la sua vita che materializzatasi si impone alla nostra attenzione nei momenti meno attesi.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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