«Il Bestiario di Tebe»: la deformità e il sublime

Uno studio sull'io attraverso i bestiari

9 minuti di lettura

Edito in 200 copie numerate, Il Bestiario di Tebe di Gian Ruggero Manzoni entra di diritto nell’elegante e curato catalogo di Lamantica Edizioni. Costituita da diciotto componimenti e accompagnata da altrettanti disegni dell’autore, la silloge si inserisce nella millenaria tradizione del bestiario.

Il bestiario d’altronde ha come propria ambizione quella di descrivere animali – siano essi reali o fantastici – con testi a carattere moralizzante. Edificare dunque un comportamento tramite un’analisi dei vizi e delle virtù umane manifestatisi nella simbologia bestiale. Come scrive il poeta in Echidna:

Tuo fu il motto:
«I vizi del genere umano sono validi strumenti
per rendere grande quella specie».

Lo studio della «tassonomia dell’utopia»

Gian Ruggero Manzoni, già scrittore, poeta e artista, in quest’ultima raccolta dà prova di tutta la sua cultura. Prendendo ispirazione – fra gli altri – dagli scritti di Erodoto e Marco Polo, l’autore comincia il proprio viaggio per comprendere gli esseri mitologici nati dalla mente degli antichi (in Minotauro si legge: «Fu il simbolo del passaggio dell’umanità / dalla fase dei primordi a quella del sapere»). Per adattare la frase dell’Orfeo di Jean Cocteau, il poeta ha il compito di scoprire un mondo, dando la caccia all’ignoto.

Quindi, un incessante bisogno di capire per il mezzo dell’immaginazione. Un percorso indomito quello tracciato da Manzoni, grazie al quale – come i suoi predecessori – si pone l’obiettivo di delineare una “tassonomia dell’utopia”.  In questo senso Arpie recita:

Come figlie di Taumante, re dello stupore,
ma anche della paura e dell’osceno turbamento,
vigliacche, vi accanite anche contro gl’inermi,
di cui le anime, conducete all’espiazione
o al martirio più osceno.

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Il sublime nel bestiale

Per citare l’introduzione dell’autore, il mostro così delineato si configura in tutta la sua eccezionalità «che suscita sentimento di meraviglia e timore per la sua “innaturalità”, e dove la bellezza la si poteva ritrovare anche, se non soprattutto, nella deformità».

A proposito, particolarmente attinente per evidenziare proprio il timoroso stupore di fronte all’inedito e al diverso, Victor Hugo ne L’uomo che ride sostiene: «La bruttezza è insignificante, la deformità è grandiosa. La bruttezza è un ghigno diabolico dietro la bellezza; la deformità è affine al sublime».

Manzoni sposa questa tesi e diviene così cantore – per dirla come Edmund Burke – del delightful horror. Oltre che nei componimenti, questo sentimento emerge chiaramente nei disegni, parte indissolubile e fondante per l’intero progetto. Realizzati in digitale con linee tremule e continue, costituiscono il linguaggio iconografico dell’autore.

Come precisa Giovanni Peli nella postfazione, si tratta della «libertà di far-essere, solo in apparenza idea blasfema, idea pregna di ùbris o grave orgoglio: in realtà umilissima attitudine che ricorda ciò che gli uomini accomuna: la libertà di pensare, di immaginare, di vedere e toccare e riprodurre ciò che non esiste nella cosiddetta realtà».

«Le colpe di noi simili»: il sacro per la comprensione di sé

Al mostro viene conferita così un’aura di sacralità, capace di rimanere immutata nei tempi nonostante le trasformazioni. Non sorprende come nei componimenti l’esplicazione del mito greco trovi correlazioni anche nella tradizione cristiana. Ad esempio, in Drago viene compiuta un’esegesi del ruolo del mostro. Una figura sconfitta tanto da Cadmo quanto da San Giorgio, ma comunque condannata al baratro:

In modo che il Figlio dell’Uomo
benedicesse le colpe di noi simili,
quell’ansimo, e quelle immonde tracce.

A questo proposito già nel titolo viene presa a modello la città più importante della Beozia della Grecia antica. Culla di centinaia fra i miti più famosi, la città secondo leggenda fu fondata – appunto – da Cadmo dopo l’uccisione del minaccioso drago. Con la moglie Armonia, però, Cadmo fu tramutato in serpente – una sorta di surrogato della sua stessa vittima.

Perciò Il Bestiario di Tebe assurge a morfologia dell’ignoto per scoprire se stessi. Manzoni ricrea la sensazione che il turista immerso nel verde prova nel vedere le imponenti creature nel Parco dei Mostri di Bomarzo. Un continuo gioco di specchi illusori che ricorda la vicenda del Minotauro così come narrata da Friedrich Dürrenmatt. La comprensione di sé, quindi, anche come epilogo tragico.

I «freaks», ovvero l’io segreto

Prendendo riferimenti anche più moderni, è così che in Freaks di Leslie Fiedler si legge come nel guardare quest’ultimi si provi «una sorta di vertigine simile a quella provata da Narciso quando contemplò la propria immagine riflessa nell’acqua e vi si tuffò per morirvi. [Per questo] la distinzione tra spettatore e oggetto esposto, tra noi e loro, tra normale e freak si rivela un’illusione che cerchiamo di difendere disperatamente e forse anche necessariamente, ma alla lunga insostenibile». Da qui l’io concepito in maniera anche mostruosa ma non per questo meno affascinante e comunque ammantato da sentimenti contrastanti.

Il mostro diventa dunque un fenomeno da analizzare. Un evento eccezionale, la cui natura si può ricercare tanto nella spiritualità quanto nella razionalità. Una ricerca a tratti psicanalitica che spinge l’uomo a capire il senso dell’attrattiva e del fascino esercitato da queste creature. Un io segreto svelato in tutta la sua autenticità, sintesi della nostra natura. Ed è quindi nei versi di Chimera che il lettore/spettatore comprende:

Fu allora che il cieco cantò:
«Nulla è più facile che illudersi, perché ciò
che ogni uomo desidera, crede anche
che sia vero.
La mente tenta di distruggere
quel vagheggiamento, ma subito
il cuore lo riconferma come attuale,
ma anche quale nuovo, e perituro,
rodimento».

L’insegnamento delle «Metamorfosi»

Piero Bernardini Marzolla osserva come nelle Metamorfosi di Ovidio abbia un ruolo fondamentale la visività dei suoi versi. Infatti, «i rapporti tra scene descritte […] e opere figurative antiche […] sono fortissimi, tanto che più volte si ha la netta sensazione che egli avesse sott’occhio o a mente un’opera precisa».

Manzoni, con il medesimo bisogno di spiegare i fenomeni umani con elementi extraumani, dove lo straordinario diventa utile per spiegare l’ordinario, crea una propria galleria di immagini. Il Bestiario di Tebe diviene così l’incarnazione materiale di miti più o meno noti, in una chiave originale e mai prevedibile. Come esemplificato in Fenice, emerge il perpetuo rigenerarsi in ossequio al mistero della vita:

Ma ecco che, il giorno dopo, resusciti dalla tua
cenere, perché, nell’esistere, ogni morte
è comunque un principio, e, ogni inizio,
(al contrario)
sempre un epilogo, o, per meglio dire,
un impervio e misterioso
limite.

Immagine in copertina: «Il Bestiario di Tebe» di Gian Ruggero Manzoni. Foto di © Mario Martinazzi per www.lamantica.it

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996. Nel 2020 si laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Brescia. Ha pubblicato otto raccolte di poesie e due racconti.

1 Comment

  1. Grazie infinte, Lorenzo, che bel pezzo hai scritto, con tutti riferimenti che, per mia gioia, fanno parte del bagaglio culturale che mi scorta da 50anni a oggi. Molto significativa la tua penna critica, la quale diviene, come lo fu per Testori, a sua volta pungolo creativo. Sì, così dovrebbero essere le recensioni ai libri, cioè prolungamento creativo, perciò ampliamento meditativo/narrativo, degli stessi. Un abbraccio e di nuovo grazie. GRM

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