Un festival è lo specchio della società, diceva un professore di letteratura inglese. Ma, attenzione: prima di essere uno specchio è un programma, cioè una pianificazione dell’identità nella quale si vuole far identificare il pubblico. Un festival, poi, è aggregazione, comunità, senso di appartenenza che si crea anche quando non appartieni a quel luogo.
Incroci di Civiltà: una scatola che si apre
Una locandina, un programma interessante. Un festival si presenta come una sorta di prodotto che porterà sempre con sé qualche sorpresa, qualche imprevisto che non ci voleva proprio. Un festival è anche una scatola ed essere parte dello staff significa aprirla e guardarci dentro. Vedere le cose da un’altra prospettiva, vivere l’esperienza letteraria nella sua interezza, vedere la letteratura farsi più viva che mai. Un festival non si fa da soli, bisogna essere in tanti, e bisogna crederci.
Apri la scatola di Incroci di Civiltà e ti ritrovi nel centro di Venezia, in un auditorium dell’Università Ca’ Foscari, che diventa un cuore pulsante. Se ti sporgi oltre il bordo puoi vedere tutte quelle persone che di solito non noti, per il semplice motivo che non stanno sul palco. Ma, si sa, se uno spettacolo va in scena è perché c’è qualcuno che ha aperto il sipario. Sono loro ad aprirlo, a sistemare le poltroncine per gli autori e a correre su e giù dalla cabina di regia quando qualcosa non funziona. Sono persone che hanno un viso e un nome, ma non finiscono sui giornali perché un riflettore non le illumina, eppure sono l’anima del festival.
Facciamoli, i nomi, una volta ogni tanto. Sono Consuelo, Chiara, Elena e Filippo, i tentacoli che tengono in vita Incroci. I fotografi cristallizzano gli attimi, una quarantina di volontari si alterna tra sala e ingressi, diventando parte degli ingranaggi del Festival. Il direttore, Flavio Gregori, è quello che ci crede sempre fino in fondo e non molla mai. E poi ci sono gli interpreti, che non vedi ma senti nelle cuffie. I volontari della protezione civile che controllano sia tutto a posto, i librai che portano carrelli pieni di libri in una città che non è proprio delle più comode, le addette alle pulizie intransigenti che allontanano tutti dalla sala per procedere con la sanificazione. È una scatola affollata, quella di Incroci di Civiltà.
Quando la letteratura si amalgama con la vita
Ascoltare degli autori parlare non significa solo capire qualcosa in più sui loro libri o sul loro modo di essere, ma anche sul nostro. Bisogna stare attenti, non cedere al torpore invitante di una sala riscaldata, delle poltroncine di velluto rosso. Non lasciar vagare la mente per affreschi e lampadari. Bisogna stare attenti, perché appese alle parole degli autori e moderatori, potrebbero esserci quelle che stiamo cercando. Proprio per questo è necessaria l’attenzione: non sappiamo in cosa consista la nostra ricerca, quindi dobbiamo cercare di cogliere anche i minimi dettagli, le sfumature, e poi, se le parole ci scelgono – perché probabilmente sono loro a farlo, non noi – essere pronti ad accoglierle, ad abbandonarci al loro suono come una porta che si apre grazie ad una formula magica.
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Il Festival è stato un susseguirsi di temi, discorsi, argomenti. Talmente tanti da fare indigestione, se recepiti con la voracità di chi cerca il senso delle cose nell’amalgama di morfemi e segni di punteggiatura. La pagina stampata è un mare, quello agitato che si infrange sulle Zattere. Un mare nel quale si può rapidamente annegare o navigare, a seconda dei casi. Un festival permette alla letteratura di fondersi con la vita di tutti i giorni, abbandonando gli ambienti asettici ed estremamente freddi delle Università per raggiungere le persone, toccarle, scuoterle. Turbarle.
Un susseguirsi di volti
Il palco dell’Auditorium Santa Margherita ha visto un susseguirsi di volti, da Jan Brokken a Vinicio Capossela, da Caterina Edwards a James Noël. Si è trattato di un vero e proprio incontro di civiltà, di lingue e culture diverse. Il comune denominatore era – ovviamente – la letteratura, il suo potere, il coraggio di chi squarcia il buio della notte con le parole. Perché scrivere è abitare uno dei tanti mondi possibili, uno dei modi per vivere, per comprendere ciò che ci circonda. «Finché avrò la poesia non avrò paura del buio» sosteneva Emily Dickinson dalla sua stanza di Amherest, e in una sola frase ha condensato il senso di tutta la letteratura.
Il sipario si è chiuso su Incroci di civiltà. Dietro le quinte si sorride, ed è anche un incrocio di sguardi, non solo di civiltà. Il pensiero corre veloce a Walden, di Thoreau: «c’è un miracolo più grande del riuscire a guardarci l’un l’altro negli occhi per un istante?»
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