«Prendete la vita con leggerezza. Che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». Così scriveva Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, pubblicate postume nel 1988. Quella della leggerezza è per Calvino un’idea di letteratura consistente nel continuare a insinuare il dubbio nella realtà circostante e nel condurre una profonda ricerca esistenziale mossi dalla curiosità.
Italo Calvino, si sa, è stato anche un grande scopritore di talenti. A lui, infatti, è dedicato l’omonimo premio per le opere inedite e per gli esordienti. Fra questi talenti da lui scoperti, che più di tutti hanno fatto tesoro dell’arte della leggerezza, figura Daniele Del Giudice, morto a Venezia nel settembre 2021 dopo una lunga malattia.
Chi era Daniele Del Giudice?
Definire Daniele Del Giudice non è impresa facile. Recentemente ci ha provato Pierpaolo Vettori con il suo romanzo Un uomo sottile, con cui l’anno scorso vinse il Premio Neri Pozza. È proprio attraverso le parole dello scrittore torinese che si tenterà una prima definizione di Daniele Del Giudice, che Vettori chiama DDG:
In inglese l’espressione vanish into thin air significa all’incirca sparire nel nulla. […] Svanire nell’aria sottile non significa dunque cessare di esistere, non essere più, ma assottigliarsi, rimpicciolirsi, ridursi a poco a poco fino a uscire dall’orizzonte, dall’indagine dei sensi, rimanere impigliati in un mondo minimo. Questo è capitato a uno scrittore italiano. Un giorno, come se un cucchiaino invisibile avesse deciso di svuotarlo, ha cominciato a sparire nell’aria sottile.
Questo è Daniele Del Giudice: uno scrittore che diventò sempre più rarefatto, sfuggente, la cui scrittura si fece sempre più misteriosa, piena di significati che portano a infinite interpretazioni. Daniele Del Giudice nasce a Roma l’11 luglio 1949. Il padre, uno svizzero dei Grigioni, muore quando lo scrittore era bambino. In varie interviste, Del Giudice ricordava sempre che prima di morire il padre gli regalò una Underwood, macchina da scrivere americana, e una bicicletta Bianchi 28. È da qui che l’autore romano fa risalire la nascita delle sue “manie”, oltre a quella del volo che nascerà in età adulta: lo spazio, il movimento e la scrittura.
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Carriera letteraria e editoriale
Del Giudice non terminerà gli studi universitari, poiché inizia sin da subito a collaborare per varie testate. Tra queste, è nota la sua collaborazione a Roma con «Paese Sera» di Franco Cordelli. Da Roma si trasferirà a Milano per poi spostarsi a metà degli anni Ottanta a Venezia. Lì, dove resterà fino alla morte e sposerà l’arabista Ida Zilio Grandi, Del Giudice dà vita nel 1999 a “Fondamenta”, un ciclo di incontri che coinvolse autori come José Saramago e Claudio Magris per creare una comunità di scrittori e lettori.
Nel 1983, Del Giudice dà il via alla sua carriera da scrittore. Scoperto da Italo Calvino – di cui Del Giudice raccoglierà il testimone lavorando come consulente editoriale per Einaudi dal 1986 –, l’autore romano esordisce con Lo stadio di Wimbledon, che gli valse il Premio Viareggio Opera Prima nello stesso anno.
Questo romanzo sarà presagio di quello che diventerà lo scrittore stesso. Se il protagonista, infatti, cerca uno scrittore che non ha mai scritto una pagina in vita sua – si capirà essere Bobi Bazlen, noto lettore e fondatore di Adelphi –, Del Giudice diventerà presto uno scrittore che comincerà a scrivere sempre meno. Ben presto l’autore romano comincerà a soffrire del morbo di Alzheimer, che lo porterà a essere ricoverato in una struttura alla Giudecca.
Le opere di Daniele Del Giudice
Daniele Del Giudice muore a Venezia il 2 settembre 2021, due giorni prima di ricevere il Premio Fondazione Campiello alla carriera. Descrivere l’opera eterea di Del Giudice, che gli valse numerosi premi, sembra difficile. La cosa certa è che, come disse in occasione del Campiello dell’anno scorso Ernesto Franco, direttore editoriale di Einaudi e grande amico dello scrittore romano, la sua è stata sempre una scrittura in divenire, sempre mossa dal dubbio:
Una parola che avrebbe scelto lui per descriverlo? “Sentire”. Non come sentimentalismo, ma come continua ricerca, un continuo viaggiare in un territorio che sappia descrivere sempre un modo di sentire, di ragionare. Sentire con il corpo, con il sentimento, con il cervello, con il cuore il mondo contemporaneo e il mondo che sta per essere qui.
Che siano racconti, opere come Orizzonte mobile, Staccando l’ombra da terra, i saggi di In questa luce oppure I-Tigi. Canto per Ustica scritto assieme a Marco Paolini, gli scritti di Daniele Del Giudice costituiscono un viaggio sempre in divenire e mai destinato a finire mosso dal dubbio e dalla continua ricerca di un senso per la scrittura e per la propria esistenza.
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La scrittura di Del Giudice fa tesoro della leggerezza calviniana, poiché sfiora la realtà cercando di stabilire relazioni fra le cose di un mondo che si fa sempre più rarefatto, come scrive, infatti, Pierpaolo Vettori nel suo Un uomo sottile facendo parlare uno dei personaggi delgiudiciani, ovvero il fisico del CERN Pietro Brahe:
“Aveva previsto un futuro in cui gli oggetti non avrebbero più avuto corpo, sarebbero stati invisibili, raggiungibili solo tramite simboli: sia che fossero icone su un desktop o tabulati numerici su un display. Voleva capire come descrivere un mondo che ci sparisce tra le mani”.
Per iniziare: «Nel museo di Reims»(1988)
Per conoscere uno scrittore, l’ideale sarebbe sempre iniziare dai racconti brevi, piccoli assaggi del potenziale narrativo di un autore. Del Giudice ha scritto molti racconti che in breve contengono la sua poetica: il tentativo di definire le relazioni fra le cose e la realtà circostante, ma allo stesso tempo cercare di superare la pura forma per immaginare il mondo che si cela dietro di essa, come sottolinea Tiziano Scarpa nella sua prefazione al volume delle Letture Einaudi che raccoglie tutti i racconti dell’autore romano:
[…] ciò che esiste non è necessariamente visibile, eppure può essere detto; ciò che si esprime a parole non è necessariamente arcaico, ma può scavalcare la percezione immediata e installarsi al di là, “vedere oltre la forma” […] mettendosi al fianco delle misurazioni più sofisticate e minuziose che catturano ciò che i sensi non possono cogliere.
Il racconto su cui, però, ci si vuole concentrare di più è Nel museo di Reims. Il protagonista di questo racconto lungo è Barnaba, un ex ufficiale della marina che a causa di una malattia sta cominciando a perdere la vista, e prima che sia troppo tardi vorrebbe trattenere come ultime immagini quelle della pittura. Barnaba si reca, allora, a Reims, nel cui museo visita i quadri di Corot, Géricault e Delacroix, ma è interessato a uno in particolare: Marat assassiné di Jacques-Louis David.
Barnaba osserva i quadri grazie all’aiuto di Anne, che in realtà sembra mentire nel dare la descrizione di ciò che vede. Che sia vero o meno quello che la ragazza racconta, per Barnaba – e per Del Giudice – non è importante. Ciò che vediamo non corrisponde mai alla totalità del reale, il cui significato si cela in ciò che è nascosto e che sfugge alla nostra percezione, e che si raggiunge soltanto attraverso l’immaginazione, cercando e creando legami fra noi e le cose.
[…] eppure dei quadri gli piaceva proprio quello, la scena, per lui i quadri appartenevano alla famiglia della messa in scena, dei sogni e del teatro, e così potevano esserci sogni astratti e sogni figurativi, ma sempre lo incuriosiva più di tutto la situazione, lo incuriosiva la storia, i fili infiniti che dalla storia si dipartono lasciando immaginare il prima e il dopo, tutto quello che nel quadro non c’è.
Per proseguire: «Lo stadio di Wimbledon»(1983)
Una volta letto i bei racconti di Del Giudice, l’ideale sarebbe proseguire con il suo primo romanzo, la sua prima opera narrativa in assoluto: Lo stadio di Wimbledon, trasposto al cinema nel 2001 da Mathieu Amalric. Il protagonista è uno scrittore agli inizi della propria carriera – forse Del Giudice, ma può essere chiunque di noi – che giunge a Trieste sulle tracce di un non-scrittore, colui che ha sempre lavorato sui libri degli altri, ma non ha mai scritto nulla di suo pugno: Roberto “Bobi” Bazlen.
Lo scrittore protagonista cercherà di rispondere alla domanda che più di tutte lo tormenta: «sono venuto qua per capire perché uno scrittore non ha scritto». Ciò si rivelerà sempre più difficile, un po’ come capire la personalità di Bazlen, un intellettuale schivo, imprendibile e sfuggente. Per il protagonista non sarà importante la meta, quanto il viaggio. È significativo in questo senso il titolo stesso del romanzo, che rimanda a una tappa imprevista del viaggio del protagonista – la cui meta principale è trovare l’essenza di Bobi Bazlen –, un luogo che lo lascia con dubbi irrisolti, ma che in virtù della leggerezza calviniana costituiscono parte fondamentale dell’esistenza dell’essere.
Questo romanzo dimostra quanto la scrittura di Daniele Del Giudice sia vita, e la vita di Bobi Bazlen sia scrittura: lasciare tracce della nostra esistenza, dubbi e domande irrisolte per inseguire una risposta, ma allo stesso tempo per inseguire noi stessi ed esistere. Questo è il mistero della vita: arricchirsi attraverso la complessità del reale, divenire assieme al mondo che cambia.
Forse non c’è un percorso, ma solo un’intermittenza tra la probabilità e l’improbabilità. È come se ogni spostamento lo decidessi lì per lì, per vedere dove porta, e questa scoperta, poi, non fosse altro che l’inizio che cercavo. Vorrei mantenere una certa inerzia, con piccole spinte indispensabili e sufficienti.
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Innamorati di Daniele Del Giudice: «Atlante occidentale»(1985)
Il dubbio, la continua ricerca esistenziale e il dissidio fra razionalità e il sentire trovano il proprio apice in Atlante occidentale. Ispirato a un viaggio fatto a Ginevra nel 1984, Del Giudice racconta in Atlante Occidentale l’incontro fra due persone: lo scrittore Ira Epstein e il fisico del CERN Pietro Brahe, un incontro che nella prefazione all’edizione del 2019 il fisico Guido Tonelli ha definito «fra due esploratori: lo scrittore che scandaglia gli angoli più intimi e nascosti dell’animo umano e lo scienziato che indaga i componenti più minuti della materia».
Accomunati dalla stessa passione per il volo, i due iniziano ad approfondire la propria conoscenza, fino a instaurare un rapporto di reciproca fiducia. Questo legame porta da un lato Epstein a cercare di penetrare il metodo scientifico, per il quale il legame fra gli oggetti è fondamentale, e dall’altro Brahe a interessarsi alla scrittura come modo per ricordare ciò che accade catturando le emozioni.
Come osserva Enzo Rammairone nella sua postfazione, per lo scrittore romano «il confronto tra la scrittura tecnologica e scientifica costituiva già una stringa fondamentale nel percorso narrativo, un tessuto connettivo tra il racconto e il mondo». La leggerezza calviniana, quindi, raggiunge un livello più alto nel momento in cui Del Giudice pone in relazione tecnologia e letteratura nell’osservazione del reale e nello sviluppo del sentire attraverso la rieducazione dello sguardo.
Il rapporto fra Brahe ed Epstein è la chiave per comprendere il cambiamento della realtà circostante. Laddove la scienza arriva con le sue probabilità e le sue osservazioni fattuali, interviene la letteratura, che riesce a vedere oltre la forma attraverso il sentire, strumento attraverso cui è possibile immaginare infiniti mondi e conoscere la complessità del reale.
“[…] Potrei dirle: una storia è fatta di avvenimenti, un avvenimento è fatto di frasi, una frase è fatta di parole, una parola è fatta di lettere? E la lettera è irriducibile? È ‘l’ultimo’? No, dietro la lettera c’è un’energia, una tensione che non è ancora forma, ma non è già più sentimento, ma chissà quale potenza occorrerebbe per sconnettere quel sentimento dalla parola che lo rende visibile, dal pensiero che lo pensa istantaneamente, e capire il mistero per cui le lettere si dispongono in un modo e non in un altro e si riesce a dire: ‘Lei mi piace’, e il miracolo per cui questo corrisponde a qualcosa”.
In copertina:
Artwork by Luigi Mallozzi
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