Tra i possibili candidati al LXXVI Premio Strega c’è anche il romanzo d’esordio dell’attore e regista Pietro Castellitto, Gli iperborei (Bompiani, 2021). La proposta è stata avanzata da Teresa Ciabatti – già semifinalista l’anno scorso con Sembrava bellezza – con la seguente motivazione:
Con una voce unica e originale, Castellitto smaschera lo scherzo dell’età senza mai tirarsene fuori. La sua è un’implosione. […] Spudorato e pieno di grazia, scapestrato e gentile, questo romanzo fotografa l’oggi con uno stile maturo, ora anarchico, ora conservatore, sempre intimamente innovativo. La velocità, quasi distratta, dei passaggi cruciali, l’inversione del rapporto causa effetto, la drammatizzazione quasi psichedelica dell’inezia, l’anestesia del dolore.
Il prossimo 31 marzo sapremo se Gli iperborei sarà effettivamente incluso nella dozzina di candidati al più prestigioso premio letterario italiano.
Per ora possiamo dire che fin dall’annuncio della sua pubblicazione il romanzo ha suscitato molta curiosità, e non solo tra chi conosceva Castellitto come regista e sceneggiatore de I predatori, film vincitore del premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura alla 77ª Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia. Gli iperborei incuriosisce infatti anche per un paragone, forse ingombrante, con cui l’autore ha dovuto fare i conti fin dalla prima riga del libro: quello con Margaret Mazzantini. Se tua madre ha all’attivo un Premio Strega (2002, per Non ti muovere) e un Campiello (2009, per Venuto al mondo), è chiaro che tutti si chiederanno se sei davvero un figlio d’arte.
«Gli iperborei»: la trama
Il romanzo è incentrato su un gruppo di amici trentenni, figli di famiglie altolocate, che conducono un’esistenza all’insegna dei festini e dello sballo, con alcol e droghe pesanti. La vita li annoia anche se dalla vita hanno avuto tutto (o forse proprio per questo). Il narratore, Poldo, ha sconfitto un cancro in giovane età, ma in fin dei conti sembra che nemmeno questa esperienza lo abbia portato ad assumere un atteggiamento meno superficiale. I suoi amici – Guenda, Ciccio, Aldo, Edoardo, Stella – sono focalizzati soltanto su sé stessi, o sulla prossima pista di coca da sniffare in discoteca. Non hanno vere aspirazioni: ogni loro desiderio pare più uno sfizio da togliersi, che perde inesorabilmente valore nel momento in cui si concretizza. In attesa del prossimo da aggiungere alla collezione.
Pietro Castellitto mette in scena personaggi abituati alla dissolutezza più totale, consapevoli che a loro tutto è concesso, che non ci saranno mai conseguenze. Perfino di fronte alla spietatezza più gratuita. E allora è possibile umiliare il guardiano di un parco, colpevole di averti ripreso perché ti ci sei intrufolato di notte. O lasciar morire di overdose uno sconosciuto in un parcheggio. Eppure delle conseguenze ci sono, sempre, e alla fine anche i protagonisti de Gli iperborei dovranno confrontarsi con un evento tragico, all’apparenza impensabile nelle loro vite patinate.
Il mito degli iperborei
Ma da dove deriva il titolo Gli iperborei? In apertura del romanzo Pietro Castellitto riporta una citazione di Plinio il Vecchio, relativa proprio a queste figure mitologiche:
Qui trascorrono lunga vita quelli che furono chiamati Iperborei, popolo felice, celebrato per favolosi miracoli. Essi hanno per casa boschi e foreste, la discordia e ogni malattia sono loro sconosciute. Stanchi della vita, gli Iperborei si uccidono gettandosi in mare da una rupe: lietissimo è questo genere di sepoltura.
Creature senza alcuna preoccupazione, che arrivano a togliersi la vita quando questa le ha tediate troppo. Non è difficile fare il parallelismo tra gli Iperborei di Plinio il Vecchio e i personaggi del romanzo di Castellitto. E non lo è nemmeno ritrovare in questi ragazzi i protagonisti di qualche fatto di cronaca a cui siamo ormai assuefatti, che si macchiano di crudeltà inspiegabili e si giustificano affermando che si annoiavano. Ne è consapevole l’autore, che nei ringraziamenti finali scrive:
A chi, leggendo, si sentisse chiamato in causa, ricordo che questo libro è il resoconto di un’esperienza immaginata. La realtà di quest’epoca supera spesso la forza del pensiero stabilendo un limite da cui la fantasia può partire. È tutto falso, ma per pochissimo.
Le vicende narrate ne Gli iperborei sono estremizzate, ma non ci sembrano in fin dei conti così avulse dalla realtà: sono false, ma per pochissimo, come ammette lo stesso Castellitto. Ricordano in questo i miti e le leggende, storie chiaramente inventate, ma in cui è possibile trovare un fondo di verità.
Il vuoto dei valori e dei talenti
Quella dipinta è una situazione di profondissimo vuoto di valori, che si traduce nella vacuità dei suoi personaggi. Il lettore non è portato ad affezionarsi a nessuno di loro o provare una minima empatia. Non gli suscitano nulla, forse perché non hanno nulla per cui battersi, mentre di solito ci si lega a un eroe (o un antieroe) che lotta per cambiare la propria condizione, sociale o psicologica che sia. Nei personaggi che ci infiammano c’è sempre una mancanza da colmare, che ci spinge a fare il tifo per loro.
Non si tifa invece per i personaggi de Gli iperborei, senza valori ma anche senza talenti. Sono milionari di seconda generazione: se a qualcuno va il merito della loro ricchezza, è ai loro genitori, professionisti stimati nei rispettivi settori. Ai figli questa ricchezza è solo toccata in sorte, e se otterranno qualcosa dalla vita sarà solo in virtù del loro cognome. Sono frequenti i flashback che ci riportano alla loro infanzia, come in cerca di un trauma che possa averli resi le persone inconsistenti e spietate che sono. Non c’è nessun vero trauma: la colpa, forse, è solo della noia, figlia di un’agiatezza smodata.
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È di fronte alla vacuità di questi ragazzi che emerge un’enorme differenza tra l’opera prima di Pietro Castellitto e i romanzi scritti dalla madre. In ogni libro di Margaret Mazzantini si crea un coinvolgimento emotivo enorme con i suoi personaggi, tutti gravati da un segreto che li dilania. A questo coinvolgimento Castellitto invece rinuncia, mettendo in scena protagonisti impantanati in una trama che sembra quasi girare a vuoto, perché alla fin fine tutte uguali sono le loro giornate. Non è mai semplice creare personaggi ben caratterizzati, con personalità, ma non lo è nemmeno crearne di volutamente inconsistenti. In questo, Castellitto centra il suo obiettivo.
In un certo senso, però, Gli iperborei è anche un’occasione mancata: non c’è né una dannazione né una redenzione per Poldo e gli altri. Resta l’impressione che l’autore abbia disposto i pezzi sulla scacchiera, per poi rinunciare a giocare fino in fondo la partita, ed è un peccato. Dov’erano all’inizio, li ritroviamo alla fine, nonostante tutto. Sarebbe stato bello se la trama avesse preso una svolta più decisa, in una direzione o in un’altra.
Lo stile de «Gli iperborei»
È doverosa un’ultima considerazione sullo stile di Pietro Castellitto, che in una parola potrebbe essere definito evanescente. Lo sono i personaggi, lo è la trama. Se dovessimo però trovare un secondo aggettivo, sceglieremmo “allucinato“. Il narratore de Gli iperborei (acquista) è spesso sotto effetto di sostanze stupefacenti e questa alterazione psicofisica si ritrova anche in una sintassi che si fa sincopata, in cui non sempre è semplice ricostruire i legami logici: ora affannosa, ora concitata, ora stremata. Ancora la penna di Castellitto non ha raggiunto la piena maturità – come spesso accade per gli esordienti –, ma di sicuro vanta già uno stile originale, con uno stralunamento che fa combaciare la forma con i contenuti narrati.
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