Una delle poesie più famose di Philip Larkin, This be the Verse, inizia così: «They fuck you up, your mum and dad. | They may not mean to, but they do. | They fill you with the faults they had | And add some extra, just for you.». Mamma e papà ti fottono. Magari non intendono farlo, ma lo fanno. Prima ti addossano le loro colpe, e dopo qualcun’altra, per te solo. Il legame familiare è un circolo edipico che si ripete. Le colpe dei più vecchi, mamma e papà, passano nella vita dei più giovani, rovinandola – inevitabilmente.
Famiglia
Ora che è uscito il nuovo libro di Jonathan Franzen, Crossroads, ci si domanda se non sia questo, quello pessimistico e duro del Larkin di This be the Verse, il significato della poetica del – come ha scritto Silvia Pareschi, sua traduttrice per Einaudi – più grande romanziere americano vivente. E non è un caso che in una delle prime monografie interamente dedicate a Franzen, Jonathan Franzen at the End of Postmodernism di Stephen J. Burn (2008), si rilevasse come Franzen avesse trovato un’accoglienza più calorosa tra gli psicanalisti che tra i critici letterari. Certo, Franzen, all’epoca, non aveva ancora scritto Libertà e Purity, che avrebbero definito ulteriormente le linee narrative tracciate ne Le correzioni seppur con notevoli evoluzioni stilistiche; ma il centro della galassia franzeniana, ci pare, è sempre stato lo stesso: il gelo dei rapporti umani malfunzionanti.
Come ha scritto Luca Briasco nel suo Americana, la bravura di Franzen sta nel saper frugare «all’interno del mondo minore e privato della famiglia, nella convinzione che le sue disfunzioni possano fungere da specchio illuminante di una crisi più diffusa e pervasiva». Ecco: il microcosmo familiare, questa matassa di fili che tanto interessa gli psicanalisti, come misura del disagio nella civiltà – un disagio che perciò è sempre disagio singolare, privato, carnale, di uomini e donne che soffrono e amano concretamente; il disagio singolare, privato, carnale come riflesso di colpe e correzioni imposte da chi ti fotte: mamma e papà.
«Era facile incolpare la madre. La vita era un’infelice contraddizione, desideri infiniti ma scorte limitate, la nascita come biglietto per la morte: perché non fare la colpa alla persona che ti aveva appioppato la vita? Okay, forse non era giusto. Ma tua madre poteva sempre incolpare la propria, che a sua volta poteva incolpare la propria, e così via fino all’Eden».
Correzione
Ne Le correzioni questa dinamica è esemplare, questa, scrive ancora Briasco «irrequietudine di chi vuole a ogni costo correggere quanto c’è di sbagliato nella sua vita, incapace di venire a patti con la propria identità e con l’ineluttabilità dell’errore». La vicenda non è più di quella, comunissima, di una famiglia che tenta di rimediare alle proprie storture, di un padre, Alfred Lambert, incapace di plasmare a sua immagine e somiglianza i figli Gary, Denise, Chip, e di sua moglie, Enid, incapace di ammettere a se stessa di odiare suo marito, di odiare la sua vita: «Il suo corpo [di Alfred] era ciò che lei aveva sempre desiderato. Era tutto il resto, a costituire un problema. Enid era infelice prima di andare a trovarlo, infelice mentre sedeva accanto a lui, e infelice nelle ore successive».
Ecco, quest’infelicità prende concretezza nella depressione di Gary, nella malattia che avanza di Alfred, nel disagio esistenziale di Chip e nell’incertezza sessuale di Denise. Essa è il segno di una complessità non calcolabile – quella della vita. Quest’ultima si trasforma in maledizione se costretta entro i binari delle correzioni imposte da chi desidera, si dice, solo il meglio per te. E, di nuovo, come un ciclo, il trauma – che, insegna Freud, è quell’evento che noi sappiamo far deviare la nostra esistenza, facendole prendere una direzione piuttosto che un’altra – si riverbera su chi tenta a sua volta di correggere, correggere, correggere. Gary, che fa sesso con la moglie quotidianamente, all’apice della carriera, con una bella casa, dei figli splendidi, ha introiettato il desiderio mimetico del padre tanto da non riconoscersi più.
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Ma la sua vita è troppo riuscita per ammettere a se stesso di non volerci stare più dentro, è troppo perfetta per essere cambiata:
«Bene. Preparerò la cena. – Gary battè le mani e tossì. Gli sembrava di avere nel petto e nella testa qualche ingranaggio usurato che, staccatosi dal proprio asse, stesse macinando altre parti del meccanismo interno, mentre richiedeva al corpo un’audacia, un’energia indomita, che il corpo semplicemente non era in grado di fornirgli».
Dopo due vodka martini prima delle diciannove, Gary si mette alla griglia per cucinare del pollo, che, ubriaco, lascia carbonizzare:
«Maneggiando goffamente le posate, si riempì la bocca di cenere e pollo sanguinolento che era troppo stanco per masticare e ingoiare e anche troppo stanco per andare a sputare. Si tenne in bocca la carne di volatile non masticata, finché si accorse che un rivolo di saliva gli colava lungo il mento: un modo davvero infelice di dimostrare la propria salute mentale. Inghiottì il bolo intero. Gli sembrò di aver ingoiato una palla da tennis. La sua famiglia lo stava guardando. – Papà, ti senti bene? – chiese Aaron. Gary si asciugò il mento. – Sì, Aaron, grazie. Il hollo è un po’ huro. Un po’ duro. – Tossì, con l’esofago in fiamme».
Libertà
Questo pezzo di bravura di Franzen lascia vedere la forte componente umoristica che innerva per intero il corso della narrazione. Certo, la tragedia, la famiglia, l’incubo della correzione malriuscita. Ma tutto ciò, se guardato da vicino, fa ridere: fa ridere la follia di un padre che pretende di costruire i suoi figli, fa ridere Gary, depresso fino al midollo mentre ingoia un bolo di pollo non masticato ancora in fiamme; fa ridere, in Libertà (acquista), l’accondiscendenza di Walter nei confronti di Patty e la sua incapacità a risolversi per una decisione o per l’altra. Fa ridere perché è la struttura stessa della vita umana a generare l’irreparabile contraddittorietà delle dinamiche familiari.
«Lui e sua moglie si amavano e si facevano del male tutti i giorni. Ogni altro elemento della sua esistenza, perfino il desiderio nei confronti di Lalitha, era poco altro che una fuga da quella circostanza. Lui e Patty non potevano vivere insieme e non potevano immaginare di divere separati. Ogni volta che gli sembrava di aver raggiunto l’estremo limite di sopportazione, scopriva che potevano spingersi più in là e continuare ancora a sopportare».
Dov’è la libertà, allora, quando ogni scelta è presa in questo intrico, in queste orbite di pianeti che si muovono e si attirano grazie ad una forza che li respinge l’uno dall’altro?
Questo è il centro attorno al quale ruota Libertà. Non più le correzioni imposte dal padre ai figli, ma l’impossibilità di scegliere ciò che si vuole, di capire ciò che si desidera. In Libertà la scrittura di Franzen – che si sviluppa attorno alla vicenda di Walter, mite e arrivato avvocato ecologista, e Patty, ex sportiva innamorata (?) del miglior amico del marito Richard – tocca un livello di realismo ancora più alto rispetto a quello de Le correzioni (acquista), generando un racconto che si snoda, con un respiro amplissimo, dalle vicende dei genitori Walter e Patty a quelle dei figli capaci esclusivamente di un amore malato o interrotto, Jessica e Joey.
Non c’è giudizio morale, non c’è giusto o sbagliato: il lettore ha la sensazione, mano a mano che si scorrono le pagine, di non potersi prendere la libertà di mettere dalla parte del bene e del male ciò che Walter, Patty, Jessica, Joey fanno, che l’integrità morale di Walter doveva trasformarsi in aggressività, che i sentimenti repressi di Patty e le violenze subite dovevano sfociare nel desiderio di tradire il marito per ritrovarlo, che Joey doveva volare in Sudamerica con la sorella dell’amico per poter desiderare e accorgersi della sua fidanzata depressa. Ogni evento è comprensibile se guardato nella sua infinità complessità.
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Ne abbiamo una prova concreta grazie all’esperimento di autoanalisi che Franzen consegna al lettore. La storia di Patty è narrata sotto forma di un’autobiografia redatta su consiglio del suo terapeuta, tutta giocata sulla consapevolezza, immediatamente successiva ad ogni scelta, di star sbagliando: «Patty si rendeva conto di comportarsi male, ma non riusciva a trattenersi […]. Entrò nella casa in 29th Street e si accorse, in un batter d’occhio, di aver commesso un altro errore». E ancora:
«Oh, le lusinghe dell’autocommiserazione. Così dolce, così irresistibile, e così odiosa a Richard. Patty sentì, in quel preciso istante, di essersi spinta troppo in là. […] Da dove veniva, quell’autocommiserazione? In dosi così massicce? Patty viveva un’esistenza invidiabile da quasi tutti i punti di vista. Ogni giorno aveva a disposizione l’intera giornata per escogitare un modo di vivere dignitoso e soddisfacente, eppure tante possibilità di scelta e tanta libertà sembravano solo renderla più infelice. L’autobiografa è quasi costretta a concludere che si compativa proprio perché era libera».
Purezza
Ecco la libertà. Ancora, non c’è una direzione, ma ogni decisione genera entropia, caos, confusione. Questo intrico non sintetizzabile trova espressione nella figura della protagonista del penultimo romanzo di Franzen, Purity. Pip “Purity” Tyler, con a carico un debito scolastico di centotrentamila dollari e una mamma che pare non avere un’identità dietro di sé, ama quest’ultima come si ama un genitore. È questo il «blocco di granito al centro della sua vita», questo magma composto dell’ascendente proveniente dall’integrità morale, così pura, della madre (Le Correzioni) e nondimeno dalla volontà di emanciparsi dal suo amore e dalla costrizione che generano in lei l’ansia di chi l’ha partorita (Libertà).
Solo che qui, in Purity (acquista), questa vicenda così concreta e personale, come al solito in Franzen, si distende lungo un raggio che non è solo temporalmente molto ampio, ma anche spazialmente: parti intere del romanzo si svolgono tra la Germania dell’Est e la Bolivia, oltre che negli Stati Uniti. È forse questo l’espediente che permette alla prosa di Franzen di ritrovare, ad un livello di elaborazione superiore, quel carattere enciclopedico e documentato de Le correzioni che il realismo spinto di Libertà aveva smussato. E ciò non si limita alla vastità spazio-temporale che abbraccia la narrazione; si esemplifica nella capacità franzeniana di dire con parole esatte ciò che ognuno di noi sente.
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È un fatto strano: è come se il ventaglio di esperienze che ci sono concesse sia minore di quelle che lo scrittore è capace di mettere in parola, come se la grana della sua realtà – grazie a questo potere di fissaggio – fosse più fitta e definita. Questa virtù proustiana trova il suo apice nei momenti di rottura e ambiguità. Si esprime, cioè, quando si assomma davanti alla mente una selva di sensazioni contrastanti, impossibili da catalogare ed in conflitto tra loro. Quanto la vita si ripiega su se stessa e pare poterci solo inghiottire.
«Discutevamo sempre per nulla. Come se moltiplicando un contenuto zero per un discorso infinito potessimo farlo smettere di essere zero. Per riprendere a scopare avevamo dovuto separarci, e per scopare in modo frenetico e compulsivo avevamo dovuto divorziare. Era un modo di accanirsi contro quel gigantesco nulla a cui ci aveva sempre portato tutto quel discutere. Era l’unica discussione in cui entrambi potevamo perdere con onore. Ma poi finiva e c’era di nuovo il nulla».
E tuttavia, è sempre questa stessa virtù, così capace di inquadrare, frammentare, anatomizzare il dolore, a suggerire che è proprio lì, nella contraddizione irreparabile, nell’amore bloccato di Pip, negli strascichi di un fallimento pedagogico, nella tossicità di una relazione malata, ad aprirsi il viatico a quella che si può chiamare, con molta cautela e fra molte virgolette, felicità.
«Rimasta sola, circondata dal gracidio delle rane, dal mormorio dell’acqua e dagli odori, da tutti quegli odori, per un istante provò la felicità più pura che avesse mai conosciuto. Le veniva dall’essere nuda nell’acqua pulita e lontana da tutto […]. La faceva sentire grata a sua madre, le faceva sentire la sua mancanza e desiderare che fosse lì, a galleggiare accanto a lei. L’amore che era un ostacolo di granito al centro della sua vita ne era anche il fondamento incrollabile; Pip si sentì fortunata».
Entropia
Anche il seguito della poesia di Larkin è memorabile. «Man hands on misery to man. | It deepens like a coastal shelf. | Get out as early as you can, | And don’t have any kids yourself.». La miseria, dice Larkin, si passa da uomo a uomo scavandosi come una scogliera. Bisogna, il prima possibile, saltarne fuori, uscirne, senza lasciarsi dietro alcunché, senza figli.
Ecco, se è vero che Franzen – il Franzen così amato dagli psicanalisti e così amato da chi nutre la profonda consapevolezza che dietro ogni dolore, dietro ogni minuto passato nella solitudine, dietro ogni frattura nello spazio fra sé e sé, c’è il volto di mamma e papà – fa di questo problema il nucleo narrativo dei suoi romanzi, non per ciò egli prende la strada del nichilismo. La vita è troppo disomogenea per farlo. È troppo dissestata per essere ridotta ad uno scivolo che getta nel burrone, e troppo entropica perché ci fotta una volta per tutte. Qui, ci sembra, sta tutta la bellezza dei romanzi di Jonathan Franzen.
«Richiuse lo sportello per non far entrare le parole, ma l’alterco si sentiva anche con lo sportello chiuso. Le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo rovinato stavano litigando furiosamente. Jason sospirò e le prese la mano. Lei gliela strinse forte. Doveva essere possibile fare meglio dei suoi genitori, ma non era sicura di riuscirci. Solo quando il cielo riaprì le cateratte, quanto la pioggia arrivata dall’immenso, buio, oceano occidentale cominciò a battere sul tetto della macchina e il suono dell’amore coprì gli altri suoni, solo allora pensò che forse ce l’avrebbe fatta».
Immagine in evidenza: Jonathan Franzen. Fonte: ilmanifesto.it
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