Dimenticare di esistere

«Joséphine» di Jean Rolin

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«Joséphine» di Jean Rolin

Joséphine di Jean Rolin (Quodlibet) è una testimonianza, il ritratto misericordioso di un amore. Nonostante i riferimenti e i richiami extra-testuali consentano di ricostruire la vicenda biografica, Joséphine è molto più dell’arida consequenzialità dei fatti che hanno portato alla morte dell’omonima protagonista per overdose nel marzo del 1993.

La follia e l’altro

Pubblicato già nel 1994, il libro si contraddistingue per una profonda consapevolezza e una capacità di elaborazione che pochi autori riescono a restituire in maniera così nitida e puntuale. I brevi capitoli cadenzano l’andamento di un percorso impervio, annebbiato dalle vicissitudini che si sono forsennatamente conseguite. Joséphine è anche per questo l’accettazione della morte, delle sue anticipazioni e implicazioni.

Rolin scandaglia il mondo interiore della sua amante, restituendolo al lettore in tutte le sue contraddizioni. L’ostinata caparbietà si alterna alla puerile fragilità, donando pagine di un’assoluta sincerità.

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Non esiste condanna né tantomeno ricerca di un colpevole; piuttosto permane il senso di solitudine di fronte alla follia e l’incapacità di proseguire la propria rotta, tracciare un destino. In questo dilemma persiste il rapporto simbiotico con l’altro che però, per coraggio o timore, viene censurato. Non si riesce, parafrasando Michel Foucault in Storia della follia nell’età classica, ad accettare la follia nella sua fatuità tanto dello spettatore che dello spettacolo.

La testimonianza nei diari

Dopo la morte di Joséphine, Rolin legge i suoi diari. Il suo ricordo torna a quello zaino pieno di cose utili e buoni propositi: in particolare, due o tre libri da riprendere nei momenti di serenità, e agende dove annotare le proprie emozioni. La grafia ora tanto precisa e curata tanto da assomigliare a un pizzo, diventa disarticolata e irregolare come se la scrivente fosse colta da continui spasmi. Così nella testimonianza di Rolin se ne cela un’altra, pronta a condizionare la prima. Joséphine riporta in uno dei suoi quaderni:

D’altra parte lui è costretto, evita tutte le possibilità di ritrovarsi faccia a faccia con la follia […]. È estremamente doloroso restare chiusi in se stessi, fa male al cuore, è difficile […]. Provo a dare una definizione dell’amore: l’amore è la possibilità di dissimularsi in un altro, di dimenticare di esistere […]. Diventerò normale per custodire il suo corpo. Non lo perderà mai del tutto. Me ne prenderò cura.

Frasi, per ammissione dello stesso Rolin, che dopo la sua morte risultano laceranti. Nel “dimenticare di esistere” si consuma tutto il dramma. Espiare il dolore immedesimandosi nel compagno con la speranza di prendersene cura. La speranza, dunque, di far sopravvivere l’altro e continuare, seppure sublimata, a persistere in lui.

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Come la pellicola che imprime certe sequenze, l’autore ricostruisce il suo film più personale. Colleziona fotogrammi, acquisendoli dalla memoria e comincia a ricostruire Joséphine partendo dai suoi vestiti bizzarri e dalle abitudine eccentriche. Ne plasma la figura e intorno a lei prende forma la scenografia. Un collage di aneddoti, sensazioni, che conferisce una tonalità singolarissima a ogni episodio.

«Joséphine»: una testimonianza fra poesia e reportage

Il narratore è disarmato dinanzi all’ingenuità di Joséphine e non può che mostrarsi per quello che è: leggibile nella sua totale trasparenza. Un amore ingenuo che disarma, in maniera del tutto terapeutica:

Joséphine invece non si è fermata mai davanti a niente pur di soccorermi. Né la mia impotenza, né il mio rifiuto manifesto di guarire le erano parsi abbastanza gravi, e non dubito, non ho mai dubitato che, se avesse dovuto, piccola Orfea che nulla poteva scoraggiare, sarebbe venuta a cercarmi più lontano ancora.

Una prosa che si destreggia fra la poesia e il reportage. La propensione documentaristica di Rolin ben si coniuga con la confessione. Tra l’intimo e l’analitico, Joséphine è un’opera che assume la forma del ricordo, in bilico fra reale e onirico. In questo senso non sorprende che la prima immagine del libro sia l’ultimo sogno che lei racconta all’autore.

Un amore, memore di quell’analisi sui generis che venne già affrontata da André Breton nel suo Nadja. In Joséphine, al di là della storia personale, si ritrova un gusto della letteratura che riecheggia certi personaggi di Gérard de Nerval.

Un libro che per i toni e la forma deve molto alla tradizione francese e che ne rielabora con grande efficacia i modelli, restituendoli in tutta la loro contemporaneità. Joséphine (acquista) è una testimonianza che merita di non essere perduta.

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996, è nato e vive a Brescia. Laureato in Giurisprudenza, negli anni i suoi contributi sono apparsi su riviste come Il primo amore, Flanerì, Frammenti Rivista, Magma Magazine, Niederngasse. Ha curato le pièces teatrali “Se tutti i danesi fossero ebrei” di Evgenij Evtušenko (Lamantica Edizioni) e “Il boia di Brescia” di Hugo Ball (Fara Editore). Ha anche curato la raccolta di prose poetiche "Terra. Emblemi vegetali" di Luc Dietrich (Edizioni Grenelle). Le sue pubblicazioni più recenti sono: la raccolta poetica “Il dono non ricambiato” (Fara Editore), il racconto lungo “Millihelen” (Gattomerlino Edizioni) e il romanzo “Queste eterne domeniche” (Robin Edizioni). Partecipa a diversi progetti culturali, anche in ambito cinematografico.

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