Scrivere un libro sul dolore di chi resta è quasi un atto di ribellione, un risvolto sincopato su una tragedia avvolta spesso dal mutismo. E Matteo B. Bianchi, con il suo La vita di chi resta (Mondadori), questo dolore ce lo spiega veramente bene, come fosse un viaggio verso cui il lettore si inerpica e da cui può trarre le sue personali conclusioni. Il libro è stato proposto da Paolo Cognetti per il Premio Strega.
Un diario o un libro?
Matteo incomincia raccontandoci i fatti, ma sempre dal suo punto di vista: una prima persona che non lascia scampo. Sin dalle prime pagine capiamo che è successo qualcosa di terribile. Questo memoir è denso fin dall’inizio, travolge il lettore attraverso il potere salvifico della letteratura.
I capitoli sono brevi, concitati, come fossero stati scritti di getto, ed è questa l’esatta impressione: che sia quasi un diario, un canto liberatorio. Ma non è mai troppo egocentrico o lezioso: si limita a descrivere il proprio stato d’animo e come venire a patti con l’esterno, i propri sensi di colpa, la vita di tutti i giorni.
L’autore ci racconta i giorni a seguire del tragico evento, tristi e pesanti. Il vero protagonista qui è il dolore, espresso in tutte le forme e le declinazioni possibili che ruotano attorno a un evento come questo.
Il dolore è un corso di recitazione. Impari a fingere con tutti. Esci, parli, sorridi, ti mischi agli altri, rassicuri, assicuri di farcela, che tieni botta. Dentro hai l’inferno che brucia e scava.
Prima e dopo
A intermittenza compaiono flashback della sua relazione con S. (l’ex compagno che ha deciso di mettere fine alla sua vita). La vita di prima ormai sembra quasi lontana anni luce, forse proveniente da un’altra epoca. E questo perché il protagonista e S. ormai erano separati, non stavano più insieme da mesi quando succede il fatto. Eppure “il fatto” ha comunque una sua forza deflagrante, investe Matteo fino alle sabbie mobili della depressione più cupa.
Quando sei vittima di una simile tragedia l’unica cosa che vuoi fare è farla finita. Allontanarti da tutto e da tutti, mettere fine allo strazio in un colpo solo. Ed è la sola cosa che non puoi fare.
Perché hai visto cosa provoca sugli altri, i danni emotivi che crea. Non potresti mai infliggere a coloro che ami quell’inferno che stai vivendo tu ora.
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Un viaggio chiamato dolore
La discesa negli inferi è davvero straziante: questo libro non è un libro che si può leggere nei tempi morti, con distrazione. È un libro capace di catapultarti nell’universo di una persona che ha perso tutto e cerca di risalire da quelle sabbie mobili, anche se sa che l’unico modo per farlo è quello di attraversare il dolore. E alla fine lo capisce dopo diversi tentativi falliti, le esperienze intraprese per cercare di spiegare l’inspiegabile. Medium, centri, psicologi: sono tutti palliativi; ma forse utili alla consapevolezza che la serenità esiste anche se è difficile da riconquistare.
Uso continuamente il termine “dolore” ma so che è improprio perché fornisce un riferimento parziale di ciò che si prova. Accanto alla sofferenza c’era questa sensazione costante di distacco dal reale, come se fra me e il mondo ci fosse un vetro, una distanza sottile ma concreta che mi rendeva uno spettatore esterno.
Un punto di vista alternativo
L’intento di questo libro (acquista) è quello di offrirci un punto di vista inusuale: metterci dall’altra parte, considerare vittime anche i superstiti. Come dichiara anche l’autore in un’intervista per ilLibraio.it. Credo che in questo si nasconda la vera forza del libro: perché si capisce fin dal primo capitolo che l’intento dell’autore è quello di fornire un supporto, tendere una mano.
Di suicidi leggi nei romanzi o sui giornali, sono cose che avvengono in famiglie disastrate o per circostanze eclatanti. Non succedono a te. […] Ero diventato io stesso parte di quell’evento straordinario in senso tragico. Parlavano di me nel mio condominio, nell’agenzia dove lavoravo, nel circuito degli amici e dei conoscenti. Ero l’infelice protagonista di un evento raro.
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