50 anni senza Luciano Bianciardi, maestro di stile e disobbedienza

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Ne L’integrazione (1960) Luciano Bianciardi – di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita – ci lascia un frammento che già da solo riassume un libro, una vita, una storia non solo personale:

«Ti prego di non lasciar cadere la cenere per terra,» mi dice sorridendo ma decisa. Abbiamo un letto molto basso che poggia contro il muro alla testiera e su di un fianco. Io dormo appunto dalla parte del muro, e Marisa esige che non fumi a letto e che non legga. Appena sotto le coperte spegne la luce. Ed io allora, che sempre mi corico dietro di lei, salgo di fondo, avanzo carponi fino al posto mio, e con il buio batto sempre la testa contro la parete. «Ti devi abituare,» dice la Marisa. «Buona notte, maritino».

Il romanzo, insieme a Il lavoro culturale (1957) e La vita agra (1962), compone la “trilogia della rabbia”. Espatriato, Bianciardi è infatti sempre asincrono e fuori contesto. Profondamente maremmano, stretto tra un desiderio di fuga e un’endemica incapacità di adattamento, capace di testimoniare al tempo del “miracolo all’italiana” miserie e bagliori di una trasformazione epocale. Indimenticabili ancora oggi alcune pagine che scrive nella sua «storia della diseducazione sentimentale in Italia, al tempo del Miracolo», come Luciano Bianciardi annunciò il capolavoro che compie oggi sessanta anni.

Tutto corre in quegli anni, tutto si sfalda, e il sistema seduce, ti fiacca fino all’estremo. Cosa raccontare, dunque, se il processo di modernizzazione risponde al bisogno di integrazione dell’uomo stesso? Ancora più che la denuncia della produzione e dei consumi, a colpire è un Bianciardi che disintegra le sue “vittime” e arriva a descrivere l’intellettuale come un ingranaggio, come una formica che prima morde e poi subisce, perché accetta il corso, perché sceglie di accrescere «gli interessi della produttività», come si legge nell’Integrazione.

Lo sguardo controcorrente di Luciano Bianciardi

«Cesellatore di parole» nello sguardo del grande fotogiornalista e amico Mario Dondero, Bianciardi è stato autore dal profondo sentire, con uno sguardo sagace, capace di cogliere cosa stava davvero cambiando nell’Italia di quegli anni. «Ben prima che McLuhan scriva Understanding media, lo scrittore ha afferrato al volo le potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione, al quale dedicherà negli anni sessanta sul settimanale “ABC” la popolare rubrica Telebianciardi», ha sostenuto Roberto Barbolini in occasione del recente seminario su letteratura e giornalismo i cui atti sono stati poi pubblicati da Marsilio.

Dalla televisione – il «convitato di vetro» in tutte le case italiane –, alle nuove professioni e al futuro che le aspetta, ben poco sfugge al suo occhio estraneo e sarcastico. Così scrive nella Vita agra, facendo anche riferimento al duro lavoro di traduttore e giornalista che gli permise di sbarcare il lunario:

Nei nostri mestieri, è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM [public relation man]? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire, se il marito della Bilia non si oppone, addirittura quartari. […] No, non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo. In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. La politica, come tutti sanno, ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere.

Professionisti inutili, imprenditori di sé stessi, mistificatori di fatti e realtà: ci ricordano qualcosa? «Tra vent’anni, tutta l’Italia si ridurrà come Milano», aveva potentemente profetizzato in una lettera a un suo amico scritta nel 1962.

Un racconto vero, aggressivo, chirurgico

Non è però un’accusa, quella di Luciano Bianciardi. È, al contrario, un resoconto, il referto di un chirurgo che non lesina crudeltà espressiva in un impasto linguistico rabbioso, tra parodia e naturalismo sordido, per smascherare il “ben fatto”, il “decoroso” mediante bruschi contrasti, nello stridio di combinazioni impossibili. La “trilogia della rabbia” – insieme a La battaglia soda (1964) e Aprire il fuoco (1969) (acquista) – reca tracce di un’ubriacatura nemica di ogni economia mentale, sia a livello sintattico, dove le parole rompono le relazioni, si disallineano prima di finire la proposizione, sia sul piano semantico. Le combinazioni arrivano così a rallentare il tempo, per indagare un’epoca che si muove e sfugge. Per comprenderla, occorre dunque disintegrare schemi e sudditanza ideologica a categorie già date.

È un doppio andamento, una deformazione affidata a espressioni involute, alla manipolazione sarcastica delle procedure retoriche. L’aggressione della lingua – come si legge nel bel contributo Dentro e fuori la scrittura anarchica – è riflesso di «un’aggressività diretta contro l’oggetto polemico»: l’industria culturale, il miracolo economico, l’alienazione. Il punto di vista sperimenta dunque prospettive insolite. Se l’intellettuale è piegato al sistema, consumato dal “tradimento della missione” – di cui Bianciardi stesso si sente responsabile –, non resta che scavare in profondità, fino a rendere in lingua la propria disobbedienza.

Un’altra Italia

Estraneo a schieramenti culturali e politici, l’indisciplinato autore ha gli scatti del dilettante, dell’anarchico totale. La sua vicenda intellettuale e umana ruota attorno all’esigenza della disillusione, del disamore verso un racconto ufficiale che pretende di possedere la verità in luogo di facili entusiasmi. È un percorso controcorrente il suo, dal de profundis della vita in provincia alla scoperta degli inganni di Milano, capitale eccitata del miracolo economico. Prima di Pasolini ha saputo cogliere i vizi dell’omologazione e i labirinti dei rapporti umani nella cultura metropolitana. Una cultura gonfia di solitudine e tormenti, impregnata di quella «fumigazione rabbiosa» che è la nebbia esistenziale, la «flatulenza di uomini, di motori, di camini» della Vita agra.

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È la città dura e insieme capace di piccole solidarietà a cui ci riporta A Milano con Luciano Bianciardi (Giulio Perrone editore, 2021), pubblicato a 50 anni dalla sua morte. Qui, la scrittrice Gaia Manzini racconta lo «scrittore in tumulto», ripercorrendone soste, luoghi e spazi: dal bar Giamaica, ai bagni diurni e in comune, fino ai torracchioni a lui tanto invisi. Per molti versi, si parla di una Milano e di un paese che non c’è più, lo stesso ritratto dalle fotografie di Giuseppe Loy nella mostra romana Una certa Italia 1952-1981.

In questo labirinto di ricordi e anniversari – a parte la polvere delle biblioteche che non gli piacque mai –, cosa ha da dirci ancora chi è stato un lavoratore culturale e precario prima che ci fossero le parole per chiamarlo così? Ha da darci le parole di un presente, il nostro, che è stato capace di vedere ben prima di altri. E ha da lasciarci il suo piccolo insegnamento: una lezione chiara e incisiva di stile e disobbedienza.

Bibliografia

Roberto Barbolini, Bianciardi giornalista: la solitudine del satiro, in Letteratura e giornalismo. Volume III. Giornalisti o scrittori?, a cura di Daniela Marcheschi, Venezia, Marsilio, 2020, pp. 137-148
Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Milano, Feltrinelli, 2011
Paolo Zublena, Dentro e fuori la scrittura anarchica. La lingua della Vita agra di Bianciardi, in “il Verri”, 37, giugno 2008

Ginevra Amadio e Luca Cirese

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Redazione MM

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