Il 16 febbraio 1922 nasceva a Malo (provincia di Vicenza) Luigi Meneghello. Un maestro di levità, dall’umorismo cordiale, lontano dai cenacoli nazionali e in parte privo di eredi, con quello sguardo diffratto, la lunga distanza tra l’io narrante e la rielaborazione autoriale. In questo scarto, riempito dal cogito dell’età adulta, si colloca in parte la sua irriducibilità, quella brillantezza che ne ha fatto una delle figure più originali del nostro passato recente. Nessuna eredità, dunque, e nessun apparentamento contemporaneo, per lui nato nell’anno di Pasolini e Fenoglio cui pure lo avvicina la “diseducazione” valoriale, il racconto di un’Italia travolta dall’omologazione. È lo stile, la sua lingua, a marcarne l’unicità:
Tutto quello che ho scritto è nato sempre con una componente polemica: […] un’opposizione tra genuino e spurio, autentico e contraffatto, che investe specialmente il modo di vivere e di pensare, ma anche naturalmente il modo di scrivere. […] Mi pareva che praticare quel tipo di prosa [accademica, “inaccessibile”] non sia un modo disonesto di scrivere, ma un modo disonesto di vivere.
Lingua, stile e oralità
La «sgrammaticata grammatica» dell’oralità, il ricorso al dialetto come referto impietoso, da porre in tensione con il latino, l’inglese e naturalmente con l’italiano allontanano Luigi Meneghello dalle furie dell’avanguardia, affrancandolo al tempo dal cliché neorealista, in un pastiche capace di restituire l’unicità di un luogo, i costumi di un microcosmo contadino e artigiano insidiato dal dopoguerra. Così fa in Libera nos a Malo (1963), citazione del Padre Nostro che allude all’affrancamento dal borgo natio, alla distanza – ancora – tra il sé che scrive e la vita narrata.
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Un «poema in frammenti di prosa» secondo lo stesso autore, «confessione autobiografica, umorale e fervida rivendicazione di una supremazia dialettale, incantata epopea dell’infanzia e scavo archeologico di un paese perduto». Nessuno sguardo all’indietro, dunque, ma il racconto lieve e straniante di un tempo perduto, costellato di rituali antichi, di gesti rievocati attraverso la parola del dialetto che «è sempre incavicchiata alla realtà», come dimostra l’uso espressivo e mai macchiettistico.
Humor e antiretorica in Luigi Meneghello
Le pagine ariose, tramate di un’ironia che, per dirla con Cesare Segre, recupera una «logica infantile, o primitiva, entro un discorso maturo», fa di Libera nos a Malo (acquista) un album di ricordi ri-ordinati, squadernati davanti al lettore che, riallacciando i fili, segue le trasformazioni della società italiana, il lento scivolamento nella modernità industriale. Anche la rievocazione della lotta partigiana ne I piccoli maestri (1964) si muove sui binari dell’umorismo, in un rapporto di commossa simpatia tra l’io narrante-narrato e il sé che ricorda, orientato – come il Calvino de Il sentiero dei nidi di ragno (1947) – a una rievocazione picaresca e antieroica, che si serve dell’ironia piuttosto che dell’amplificazione.
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Per schermarsi dai germi della retorica Luigi Meneghello rasenta lo humor anglosassone, sperimentato nell’esperienza azionista e poi negli anni di insegnamento a Reading, dove fondò il Dipartimento d’Italianistica più importante d’Inghilterra.
È stato in Inghilterra, attraverso la pratica dell’inglese, che ho imparato alcune cose essenziali intorno alla prosa. In primo luogo, che lo scopo della prosa non è principalmente l’ornamento, ma è quello di comunicare dei significati. Questa per me era una novità […] Ma c’è dell’altro. […] così siamo arrivati a quanto pare al paradosso che è stato qui a Reading, ascoltando gli inglesi, che ho imparato a scrivere in prosa italiana.
La Resistenza reale
L’ironia, il distacco arguto dalla retorica frenano lo sbrodolamento delle celebrazioni, sottolineando l’aspetto umano e spesso improvvisato di azioni che mal si conciliano con la ridondanza postbellica. I piccoli maestri (acquista) è un romanzo di formazione, il lento avvicinamento del protagonista studente (proiezione di Luigi Meneghello stesso) alla gente semplice, che vive giorno per giorno, in una natura incontaminata e quasi fuori dal tempo.
Nel mezzo, come un pugno dello stomaco, il problema morale, e la guerra civile come esperienza disumana, fatta di giovani che uccidono altri giovani, nel rimorso di non aver saputo fare un conflitto «semplice e felice».
Nessun rimpianto, però, e nessun patetismo nostalgico. «Se hanno amato qualcosa nel passato o del passato, gli scrittori hanno una possibilità in più di preservarlo dall’oblio: fissarlo in una forma scritta». Come la guerra, che non si sa fare – ma si può raccontare.
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